著者
岩倉 具忠
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.40, pp.1-16, 1990-10-20

Mi sono interessato particolarmente alla parte del canto XV del "Paradiso" che costituisce il preambolo al famoso incontro con Cacciaguida, in cui il trisavolo del poeta rivolge a Dio parole incomprensibili ai mortali. Si tratta di un linguaggio mistico che il poeta non ha modo di intendere. Gli angeli e i beati non hanno bisogno di nessun mezzo di comunicazione, perche la loro intelligenza non viene coperta "cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus". Essi mirano "nello speglio in che, prima che pensi, il pensier pandi". Non era necessario quindi per un beato come Cacciaguida parlare a Dio che "tutto discerne". Ci deve esere un altro motivo per cui egli parla. A mio parere nelle parole che Cacciguida rivolge a Dio vi e un elemento mistico e liturgico. Nel "De vulgari eloquentia" Dante spiega l'origine della lingua umana, basandosi sulla narrazione del "Ggenesi", ma aggiunge delle considerazioni personali che non si trovano nel testo originale. Il poeta pensa che Adamo abbia cominciato a farsi sentire prima che a sentire, perche nell'uomo il farsi sentire e piu essenziale che il sentire. Adamo, unico uomo esistente, avrebbe rivolto la sua prima parola a Dio per farsi intendere. Ma Dio discerne tutti i segreti della mente del primo uomo, e non c'era necessita che Adamo parlasse. Dio tuttavia volle che anch' egli parlasse, affinche fosse gloirficata la Sua opera. Io penso che Cacciaguida rivolga le sue parole a Dio per una ragione analoga : glorificare l'opera del Signore, ringraziandolo per l'eccezionale generosita con cui ha concesso al suo discendente l'alta missione di "scriba Dei". Di fatto il linguaggio mistico di Cacciaguida si configura come uno sfogo religioso simile a una preghiera. Una situazione non molto diversa si puo osservare nel dialogo tra Dante e Cacciaguida. Dal momento che quest' ultimo prevede tutto quanto il poeta concepisce nella mente senza che venga espressa con il linguaggio, non sarebbe stato necessario che Dante si esprimesse. Cio nonostante il trisavolo gli chiede di parlare con voce "sicura, balda e lieta". Anche qui si tratta di un atto prettamente rituale. Che significato ha dunque in Dante il ricorso a tale azione rituale? Senza dubbio il poeta voleva conferire autorita alla missione decretata dall' Eterna Volonta senza tuttavia esplicitarne il vero significato. In conclusione il linguaggio mistico nel episodio considerato e un artificio retorico utilizzato abilmente dal poeta per rendere ancora piu solenne l'incontro memorabile con il suo trisavolo.
著者
杉山 博昭
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.61, pp.93-122, 2011-10-15

Nel presente lavoro si andranno ad identificare e analizzare i copioni delle sacre rappresentazioni raccolte a Firenze nel Quattrocento. Secondo la tesi generalmente accolta, il pregio principale di questi drammi rinascimentali sarebbe l'effetto scenico spettacolare. Questa tematica e stata lungamente discussa dagli storici dei drammi e delle arti come D'Ancona, Molinari, Damisch e Baxandall. Per quanto si debba riconoscere alle argomentazioni addotte dagli storici l'appropriatezza alla realta dell'epoca, riteniamo che siano tuttavia viziate dalla tendenza a tenere scarsamente conto dei copioni dei drammi stessi. Scopo di questo studio e esplorare le motivazioni dello stato attuale della ricerca. Il primo obiettivo che si intende raggiungere e l'identificazione dei testi che effettivamente furono messi in scena a Firenze nel Quattrocento attraverso i manoscritti redatti in quell'epoca e/o gli incunabuli, cioe gli stampati antichi. Il secondo obiettivo e l'analisi dei testi allo scopo di definire i fondamenti documentari dei presupposti alla base delle ricerche condotte fino ad oggi sulle sacre rappresentazioni. Newbigin ha indicato un'importante differenza fra le letture e i copioni delle sacre rappresentazioni. La studiosa ha formulato l'ipotesi secondo la quale la maggior parte degli stampati religiosi intitolati rapresentazione non venissero rappresentati nelle chiese o nelle piazze, ma fossero invece utilizzati come letture religiose private, sottolineando quindi la necessita di estrarre i copioni autentici nella ricerca concernente le rappresentazioni festive. Condividendo questo punto di vista, accettiamo qui il metodo filologico che considera con attenzione le condizioni esteriori dei testi manoscritti, quello stesso metodo che Newbigin ha avanzato nella sua tesi. Oltre a cio, al fine di identificare i testi con la maggiore precisione possibile, intendiamo rivolgere particolare attenzione alle condizioni interne dei testi stessi, cioe alle battute angeliche, che inducono ad ipotizzare l'esistenza di molti spettatori (cioe di un pubblico formato da cittadini e viaggiatori), nonche alle didascalie, che indicano l'attrezzatura caratteristica della regia delle sacre rappresentazioni. Intendiamo infine tentare un confronto fra la compilazione dei testi manoscritti, raccolta secondo i suddetti procedimenti, e le registrazioni delle rappresentazioni nelle cronache o nei documenti antichi. I risultati di questa collazione dimostrano che qualche repertorio, per esempio quello della Passione e Risurrezione, non esisteva nel gruppo dei testi: a questa mancanza si supplisce attraverso gli incunabuli. Come risultato delle varie fasi in cui il lavoro volto all'identificazione dei testi e stato articolato, riteniamo di aver potuto selezionare in modo affidabile i copioni delle sacre rappresentazioni, dei quali si allega si allega la lista alla fine del lavoro. In base all'identificazione cosi compiuta, si procede all'analisi dei copioni allo scopo di chiarire le caratteristiche, o le funzioni in senso stretto, delle sacre rappresentazioni messe effettivamente in scena. La lettura dei testi ne evidenzia tre: la funzione religiosa, quella didattica e quella spettacolare. Nel considerare la funzione religiosa, troviamo stanze dure e spietate in scene come quella della Passione e dei programmi dei martiri: le esecuzioni capitali, infatti, avrebbero dovuto esortare gli spettatori a pentirsi sinceramente volgendo il pensiero alle pene corporali. Dal punto di vista della funzione didattica, sono particolarmente importanti le scene dei dialoghi fra i nobili e i loro accompagnatori, come il Re e il Cavaliere, il Console e l'Esecutore, il Santo e il Messaggero. La caratteristica delle stanze coincide con le opinioni di storici come Polizzotto e Ventrone, i quali sostengono che le sacre rappresentazioni avrebbero dovuto servire ai giovani fiorentini ad adeguarsi ad abitudini commerciali come le buone maniere, l'oratoria e la correttezza del gesto. Per quanto riguarda la funzione spettacolare, si considerano le scene che rappresentano miracoli di guarigione di malati o di resurrezione dei morti, perche prima dei miracoli di Gesu o del Santo si trovano sempre dialoghi ingiuriosi relativi alla sporcizia degli uni o all'impurita degli altri. Si vede cosi come le scene mostrino che i registi si servivano della dicotomia di bello e brutto, bene e male, sacro e profano. Le argomentazioni illustrate valgono come riprova del fatto che i caratteri delle sacre rappresentazioni evidenziati dai diversi storici sono corroborati dai copioni del repertorio. Questo studio contribuisce alla comprensione relativa all'accettazione delle rappresentazioni da parte degli spettatori del Quattrocento a Firenze.
著者
上野 貴史
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.48, pp.181-202, 1998-10-20

Le forme plurali dei composti costituiti da due elementi si presentano in italiano nelle forme seguenti: a)<P_1-Infl+P_2> b)<P_1+P_2-Infl> c)<P_1-Infl+P_2-Infl> d)<P_1+P_2> Pur essendo possibile spiegare in parte, a seconda della categoria dei composti, le regole sottostanti a tali forme, dal momento che esistono numerose eccezioni, si puo prevedere che le regole necessarie siano molto complesse. In questo lavoro, si tenta dunque di studiare, attraverso un approccio lessicale, il processo generativo delle forme plurali nei composti. Dal punto di vista lessicale, si cerchera di precisare le regole di formazione delle parole (nel lessico) come un processo di natura diversa dalle regole della sintassi. Il sistema ci dice che le parole che si inseriscono come uscita nella struttura sintattica si formano completamente nel lessico, ed il fenomeno della flessione viene trattato nel lessico. Il procedimento per cui, in questo lavoro, si inseriscono le regole della flessione nel lessico risulta valido per arrivare a spiegare i composti italiani che mostrano la flessione interna.In questa analisi i compostinominali sono classificati in due tipi: i composti lessicali ed i composti generativi. I composti lessicali trovano la propria forma di partenza gia registrata nel lessico. Di conseguenza, la flessione del plurale si verifica nella desinenza, come avviene per le parole semplici. I composti generativi presentano invece forme plurali differenziate a seconda della relazione funzionale all'interno dei composti stessi. Quando la relazione e la struttura sono di coordinazione, la flessione plurale appare in entrambi gli elementi a causa dell'impossibilita di specifiare la testa del composto. Se invece la struttura e di subordinazione, la flessione appare nella testa, essendo questa chiaramente identificabile. Nel lessico, i morfemi plurali sono aggiunti dalla "condizione sulla aggiunzione della caratteristica plurale". Le forme plurali dei composti italiani non sono definite dalle regole derivanti dalla categoria lessicale (incluse tante eccezioni), ma dalle procedure regolari e semplici che possiamo spiegare attraverso l'analisi del processo generativo dei composti e la relazione funzionale degli elementi che costituiscono il composto.
著者
山口 清
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.15, pp.56-63, 1967-01-20 (Released:2017-04-05)

L'idea della visita di peasonaggi al loro autore, concepita nel famoso dramma di Pirandello, "Sei personaggi iu cerca d'autore, " puo essere tracciata fino alla novella sua intitolata "La tragedia d'un personaggio." Auche le due novelle inchiuse nei "Colloqui coi personaggi, " apparsi dopo nel momento della prima guerra mondiale, tratta la medesima idea. Dunque il prototipo del famoso dramma si trova nella novella. Ecco auche un esempio dove il novelliere precede il drammaturgo in Pirandello. E un fatto molto importante per gli studi delle varie opere sue. Pirandello e come un visionario quaudo egli vede i peronaggi che vivono nel suo mondo dell'arte.
著者
伊藤 博明
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.38, pp.77-103, 1988

シエナの大聖堂に踏み入る者が最初に出会うのは、中央の舗床に描かれた「ヘルメス・メルクリウス・トリメギストュス、モーセの同時代人」HERMES MERCURIUS TRIMEGISTUS CONTEMPORANEUS MOYSIと題されたモザイク画である。このヘルメス像は、先駆的な「ヘルメス文書」の校訂版であるスコット編纂の『ヘルメティカ』、及び、画期的なルネサンス・ヘルメス主義の研究所であるイエイツの『ジョルダーノ・ブルーノとヘルメス伝承』のフロント・ページを飾り、ルネサンス期におけるヘルメス主義の興隆を視覚的に示しているものとして、研究者の間では夙に有名なものである。このモザイク画の両側には、内陣に向かって10のシビュラ像が置かれているが、それらは、舗床にはめられた石版が示しているように、1482年から1483年にかけて、オペラ・デル・ドゥオーモ(大聖堂総務局)の当時の長であったアルベルト・アリンギエーリの指示によって、数人の画家によって描かれたのであった。これらのシビュラ像から少し遅れて、1488年にヘルメス像は、ジョヴァンニ・ディ・ステーファノによって描かれることになるが、それも同様にアリンギエーリの指示を受けていたとされている。本稿の課題は、大聖堂の舗床に描かれているヘルメスとシビュラが意味している分脈を、舗床に刻まれているラテン語章句を詳しく分析しながら、また、当時の思想的・宗教的背景を踏まえつつ明らかにすることである。予め論述の順序を示しておくと、まず古代・中世におけるシビュラとヘルメスについて簡単な予備的考察を行い(l)、次にルネサンス期におけるシビュラとヘルメスの受容についてフィチーノを中心に検討し(II)、その後に、大聖堂舗床のシビュラとヘルメスについて論究することにしたい(III・IV)。Sul Pavimento del Duomo di Siena, si vedono le figure d'Ermete e delle dieci Sibille. Queste furono raffigurate da vari artisti sotto la guida del Rettore dell'Opera del Duomo, Alberto Aringhieri nel tardo Quattrocento. (1) Le Sibille furono originariamente profetesse in Grecia antica. Nel Medioevo, pero, erano considerate le donne che predissero la venuta del cristianesimo nelle varie regioni pagane. Anche Ermete, a cui erano attribuite le vaste opere, fu riferito come profeto egiziano sul cristianesimo, per esempio, nel Divinae institutiones di Lattanzio, ma Agostino accuso la falsita della dottrina ermetica nel suo De civitate Dei. (2) Nel periodo umanistico, il pensiero ermetico rigenero e venne divulgato in Italia. Marsilio Ficino, che tradusse il Corpus hermeticum, appoggiandosi sulle testimonianze di Lattanzio, insiste che Ermete vaticino la venuta di Cristo come le Sibille facero. La sua opinione ebbe una grand'influenza sui pensatori religiosi e filosofici del suo tempo. (3) Gli oracoli, che sono scritti presso le dieci Sibille, alludono alla nascita, al miracolo, alla flagellazione, alla passione, allla resurrezione di Gesu e al giudizio finale. Si pensa che le frasi d'oracoli sono prese principalmente dal Divinae institutiones. (4) Ermete si appoggia a una tabella, nella quale e scritta la frase che allude alla creasione del " Dio visibile, Figlio che e appellato il Sacro Verbo" , cioe, del Logos=Cristo prima d'incarnazione. Questa frase deriva dai flammenti che sono citati in greco presso il Divinae institutiones. Lattanzio, la cui opera fu utilizzata dal Rettore Aringhieri, dice che Cristo fu nato due volte; prima in spirito, poi in carne. Consultando questa opinione di Lattanzio, si conclude che sul Pavimento del Duomo, Ermete profezia Cristo nato in spirito e le Sibille profeziano Cristo nato in carne, ed Ermete e le Sibille rappresentano la significazione unificativa.
著者
近藤 直樹
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.49, pp.217-242, 1999-10-20

Negli anni '30 l'ambiente teatrale italiano doveva essere ossessionato dall'idea di una mancanza del "teatro di massa" cioe, di un teatro che coinvolgesse tutto il popolo. Questo senso di mancanza, nel caso del genere teatrale, e spesso destinato a collegarsi con il problema della lingua. Come dice Gramsci, infatti, la lingua del teatro deve cercare la comunicabilita di quella parlata, visto che la lingua italiana non era ancora un fatto nazionale sia per il ritardo dell'unita culturale che per quello dell'educazione. Questo vuol dire inevitabilmente rivalutazione del teatro dialettale, pero come esempio di contraddizione fra la volonta e il fatto. Il governo d'allora non ammetteva le espressioni della cultura dialettale e lo spazio teatrale era definitivamente bloccato. E molto significativo che proprio in questo periodo Eduardo De Filippo, uno dei piu fortunati e importanti drammaturghi italiani, incominciasse una carriera indipendente. La sua napoletanita nelle commedie degli anni '20 era, come il teatro di Eduardo Scarpetta, un clima che dominava leggermente il mondo del dramma; le sue erano commedie "alla napoletana". Nel corso degli anni '30, Eduardo formava un'altra napoletanita, piu essenziale e profonda, che si puo quasi definire la vera protagonista nel dramma. Questo approfondimento della napoletanita lo portera in campo nazionale e poi, internazionale, dopo la guerra. La sua intenzione era, come dira lui stesso negli anni '70, "cercare di sbloccare il teatro dialettale portandolo verso quello che potrei definire, grosso modo, Teatro Nazionale Italiano". In questo senso, gli anni '30 erano, per Eduardo, il periodo in cui andava formando il suo teatro dialettale-nazionale. Da una parte costituivano il periodo del pirandellismo, in cui traduceva il teatro del grande letterato in napoletano, cooperando con lo stesso autore e ricercava la struttura drammaturgica anche senza usare le maniere farsesche scarpettiane. Dall'altra erano, come gia detto, il periodo di approfondimento della napoletanita. Questo si intravede dalla stesura, durata molti anni, di uno dei suoi capolavori: Natale in casa Cupiello. Natale in casa Cupiello e nato come atto unico (l'attuale secondo atto) nel 1931, poi l'anno suecessivo ne e stato aggiunto un altro. Per completare i 3 atti si doveva aspettare fino al 1934, e secondo l'autore le correzioni durarono fino al '44. Questo processo della stesura che si estende oltre gli anni 30 coincide anche con lo sviluppo della fortuna del suo teatro. Con l'atto unico del '31 ha debuttato con la sua compagnia, una specie di avanspettacolo del cinema. L'aggiunta del primo atto coincide con il debutto al Teatro Sannazzaro, tappa obbligatoria di tanti letterati e teatranti, non solo di Napoli. In seguito rappresento la commedia in tre atti a Milano, dove ricevette il riconoscimento nazionale della sua arte. Anche nel contenuto, nonostante sia stata corretta interamente dopo il perfezionamento dei tre atti, non e impossibile rintracciare il percorso della formazione. Nei primi due atti si sentono ancora le influenze scarpettiane, ma il fatto che da una battuta improvvisa di Peppino, fratello minore di Eduardo, "A me non mi piace" sul palcoscenico, l'autore abbia sviluppato l'episodio del presepio, un simbolo di Napoli, e molto significativo. Il presepio non solo ha dato una connotazione caratteristica di Napoli, ma ha anche definito i personaggi. Intorno a questo oggetto i personaggi, specialmente il protagonista Luca Cupiello, si trasformano da tipi farseschi in personaggi psicologici. Questa oscillazione dei caratteri e il frutto della sintesi tra le sue esperienze nel teatro napoletano tradizionale e l'accettazione della nuova drammaturgia. Nel terzo atto, che aveva suscitato motivi di dissidi all'interno della compagnia, soprattutto fra Eduardo e Peppino, nasce la disarmonia rispetto ai due atti precedenti. In questo atto si perdono il tono farsesco e grottesco della fine, ma la napoletanita si esprime piu profondamente attraverso i contrasti tra due tipi di personaggi: quelli di casa Cupiello, come personaggi in cerca dell'armonia perduta, e dei vicini indifferenti, come "cori". I personaggi smettono di essere l'elemento di funzione per le vicende e cominciano ad esprimere la realta vissuta al di la dell'economia della trama e il topos della famiglia comincia ad avere un significato anche simbolico. Questo era l'annunzio della nuova drammaturgia italiana.
著者
角田 かるあ
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.71, pp.133-159, 2021

<p>Movimento artistico d'avanguardia diffusosi in tutto il mondo attraverso il manifesto Fondazione e Manifesto del Futurismo pubblicato nel 1909, voltava le spalle al passato e rifiutava la tradizione, glorificando la bellezza delle macchine, della velocità e del dinamismo che ben si adattavano allo spirito del nuovo secolo. La sua sfera d'azione venne ampliata ad ogni espressione artistica purché ne condividesse lo spirito, caratterizzandone la natura interdisciplinare, ma in questo quadro il fotodinamismo rappresentò un'eccezione a cui non venne concesso alcuno spazio.</p><p>Inventato nel 1911 dai fratelli Bragaglia, Anton Giulio (1890-1960) e Arturo (1893-1962), per i pittori del primo futurismo esso non meritava alcuna collocazione all'interno del movimento: pittori come Umberto Boccioni, che miravano a riprodurre sulla tela "il dinamismo del mondo come sensazione dinamica", percepivano nella fotografia un congelamento della sensazione del movimento sulla pellicola e ciò ne escludeva il riconoscimento come forma d'arte.</p><p>Un esame della letteratura manifesta la problematicità della macchina fotografica per i pittori futuristi: la fotografia non poteva infatti che immortalare la realtà in maniera veritiera, imprimendola in un eterno istante a cui ogni forma di dinamismo era negata e ciò ne limitava la portata ai soli scopi pratici. In questo lavoro si avanza l'ipotesi che questa non sia stata l'unica causa dell'esclusione, individuando i motivi della messa al bando anche nei pregiudizi negativi di cui la fotografia era gravata e nel loro persistere nel contesto culturale italiano. Tali pregiudizi derivavano dai suoi due principali contesti di impiego: il primo, "commerciale", documentava rovine storiche e monumenti di interesse culturale, il secondo, la fotografia artistica, era caratterizzato dalla ricerca dell'evasione dalla realtà, o escapismo, nella riproduzione di scene idilliche dallo stile classico.</p><p>In primo luogo si esegue un'analisi dei quattro generi esaminati ad oggi dalla letteratura accademica per determinare le caratteristiche preponderanti della fotografia italiana dell'epoca: "fotografia di viaggio", "fotografia architettonica", "fotografia artistica", "fotografi amatoriali". Si procede poi ad esaminarne gli aspetti più evidenti, quello legato alla fruizione dei beni culturali e l'escapismo, approfondendo il pensiero dei pittori futuristi e confrontando i principi dei manifesti futuristi con l'essenza della fotografia storica ed escapista. Questo esame comparativo delle fonti suggerisce in primo luogo che la fotografia del patrimonio culturale, legata all'ambito commerciale, limitandosi a ritrarre soggetti di un passato remoto che i futuristi non apprezzavano, non poteva che essere denigrata; e, in secondo luogo, che la prospettiva futurista non poteva approvare che la fotografia non solo si limitasse all'ambito documentale, ma fosse anche oggetto di commercializzazione in Italia e all'estero. Un ulteriore fattore a sostegno di questa interpretazione è rappresentato dell'opposizione dei futuristi alla diffusione di un'immagine dell'Italia superata, "una terra dei morti" che la fotografia commerciale all'estero promuoveva: la popolarità e convenzionalità di cui godeva portò i futuristi a rinnegare la fotografia nella sua interezza. In sintesi, dunque, è possibile ipotizzare che alla radice del rifiuto siano i caratteri della fotografia storica. Dall'altra parte, l'analisi della fotografia artistica o escapista mostra una glorificazione del "quadro antico", un'emulazione di esso che si avvale frequentemente di "motivi e soggetti già sfruttati": questo le impediva perciò di ritrarre la "vita contemporanea" e la rendeva agli occhi dei pittori futuristi oggetto di critica.</p><p>Queste caratteristiche, che, nell'Italia degli inizi del XX secolo, inducevano le masse</p><p>(View PDF for the rest of the abstract.)</p>
著者
藤澤 道郎
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.37, pp.1-16, 1987

Nella crisi economico-politica che incombeva totalmente la societa italiana dopo il 'biennio rosso', Gramsci commise alcuni errori quando tento di definire la sostanza reale di quella crisi. Gli errori, pero, commessi per un audace accesso a una realta del tutto nuova, a differeza dei casi degli altri dirigenti di sinistra che si chiudevano nei limiti angusti dei vecchi schemi marxisti, furono inevitabili e costituirono le esperienze necessarie per lo sviluppo del pensiero gramsciano verso una dimensione piu alta. Per dimostrarlo, chi scrive tenta di analizzare due casi in cui Gramsci si sbaglio : prima, il suo sbaglio per conto del giudizio sul significato del cambiamento della FIAT, e poi la sua prospettiva erronea sul congresso fascista.
著者
深草 真由子
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.58, pp.151-172, 2008-10-19

Il Decameron, lodato per la lingua e lo stile nelle Prose della volgar lingua, venne proposto da Pietro Bembo (1470-1547) come il migliore modello di prosa volgare. Secondo la tesi bembiana, la lingua letteraria fiorentina del Trecento doveva essere imitata dagli scrittori contemporanei, e tra i prosatori e i poeti trecenteschi furono lodati particolarmente il Boccaccio e il Petrarca. Ritengo pero che occorra considerate la possibilita che il Boccaccio non rappresentasse un modello altrettanto sicuro quanto il Petrarca; il Decameron fu definito punctum dolens del principio dell'imitazione. Non a caso infatti il Bembo non produsse un'edizione del Decameron come aveva invece eseguito le aldine di Dante e Petrarca, e nelle Prose non espose senza riserve un giudizio positivo sul Decameron. Prendendo spunto dalla proposta di Carlo Vecce in Bembo, Boccaccio, e due varianti al testo delle Prose, successivamente confermata da Claudio Vela, ho gia avuto modo di scrivere nel mio saggio Due testi del Decameron e Pietro Bembo (<<Studi Italici>> LVI, 2006), che i testi utilizzati da Bembo nello studio della lingua volgare e nella stesura della sua opera furono l'autografo del Boccaccio, l'Hamilton 90, e la stampa veneziana del 1516 curata da Niccolo Delfino. Cio che mi propongo in questo saggio e di provare a mostrare, attraverso l'analisi delle varianti tra le citazioni delle Prose e le lectiones dei due testi del Decameron, il metodo con cui Bembo applico le lectiones di ciascun testo alla sua norma linguistica e grammaticale, e il suo giudizio sul Boccaccio. Attraverso il confronto delle varianti e possibile stabilire chiaramente che le citazioni dal Decameron presenti nelle Prose sono basate piu sull'Hamilton 90 che sull'edizione veneziana. Gli esempi trascutato e gliele mostrano che tra i due testi intercorre una differenza diacronica nell'uso linguistico, dal momento che queste parole - non presenti nella stampa veneziana - sono caratteristiche del Trecento: cosi mentre il manoscritto mostra ovviamente un linguaggio trecentesco, la cinquecentina presenta forti elementi di contaminazione linguistica. Tuttavia a Bembo l'Hamilton 90 non sembrava sempre corretto: quando presentava espressioni non corrispondenti alla propria regola, il Bembo non esitava a sostituirle con quelle che gli convenivano. A Bembo interessava esporre la sua norma linguistica e grammaticale, piuttosto che ricostruire fedelmente la lezione originale dei testi. Dall'espressione che aveva usato in riferimento all'Hamilton 90, <<un libro... molto buono e antico>> (foglio 18 dell'autografo bembiano), Bembo cancella l'avverbio <<molto>>, il che ci fa supporre una scarsa valutazione nutrita dal Bembo nei confronti del codice hamiltoniano. Nel testo originale, che sembra rispecchiare una maggiore fiducia del Bembo verso di esso, si trovano alcuni esempi che contraddicono la norma bembiana. In questo lavoro ci occuperemo della negazione mai e dell'infinito sostantivato che Bembo dovette trovare nell'Hamilton 90 ma che non ritenne consigliabili ai contemporanei. Nella conclusione si offrono alcune considerazioni relative all'opinione che Bembo dovette nutrire riguardo allo stile del Boccaccio. Nel capitolo XIX del libro II delle Prose, Bembo fa riferimento a una "mancanza di giudizio" del Boccaccio che si rivelerebbe non solo nelle opere minori, ma anche nel Decameron. A nostro avviso, occorre pensare cosa significhi <<giudizio nello scrivere>> di cui Boccaccio gli pareva carente, e che cosa intenda con questo. L'affermazione del Bembo secondo la quale il Boccaccio sarebbe il migliore modello della prosa volgare nel corso della disputa sulla questions della lingua non deve essere, a nostro avviso, intesa letteralmente: "lo stile ideate del Boccaccio" non sembra infatti esistere ne nel manoscritto, ne nella stampa, ma sembra piuttosto essere una creazione di Bembo. Come si e detto, Bembo non intendeva redigerne un'edizione critica, quanto piuttosto indicarne lo stile. Questo non sminuisce tuttavia l'innegabile contributo offerto dal Bembo nell'attribuire al Decameron una posizione di primaria importanza nella storia della letteratura italiana.
著者
斎藤 泰弘
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.67, pp.73-100, 2017

<p>Il romanzo Uno, nessuno e centomila era stato concepito fin dagli anni intorno al 1910 e Pirandello ne aveva più volte annunciato, nelle sue interviste, l'imminente pubblicazione. Egli non era tuttavia riuscito a mantenere quella promessa per quasi quindici anni, quando finalmente il romanzo uscì a puntate sulla Fiera Letteraria nel periodo che va dal dicembre 1925 al giugno dell'anno successivo, proprio nel momento in cui l'Autore aveva già intrapreso l'attività teatrale nel ruolo di capocomico del Teatro d'Arte di Roma ed era estremamente affaticato tanto fisicamente che psicologicamente.</p><p>Dal momento che nel romanzo è possibile rintracciare tratti che lo accomunano alle precedenti novelle pirandelliane, gli studiosi sono stati indotti a ritenerlo, in un primo momento, un romanzo foggiato e infarcito di "plagi di sé stesso" compiuti dall'Autore. Tuttavia, il capovolgimento del punto di vista tradizionale è stato segnato dalla pubblicazione dell'edizione storica di Tutti i romanzi, uscita in due volumi a cura di Giovanni Macchia (1973). Il commento dettagliato e puntuale di Mario Costanzo che vi si legge dimostra la necessità di prestare la dovuta attenzione alla stesura autografa, databile intorno al 1915 (d'ora in poi MS-1915), come se si trattasse di una nave appoggio che, dopo aver fornito spunti e materiali non solo alle novelle ma anche ai drammi (come all'Enrico IV), dopo 15 anni di servizio torni finalmente alla darsena, tacciata ingiustamente di "autoplagi".</p><p>Porre MS-1915 al centro delle interpretazioni delle opere pirandelliane, compresa l'edizione definitiva, comporta inevitabilmente la necessità di affrontare due nodi strettamente connessi fra loro: il primo è rappresentato dai 20 foglietti smarriti o (secondo l'interpretazione di Costanzo) "rifiutati dall'Autore", che non rientrano nella massa di foglietti del MS-1915, e che provengono con molta probabilità da precedenti stesure del MS-1915. Quale relazione è possibile stabilire, dunque, tra l'ultima stesura e le varie stesure precedenti? Il secondo nodo è legato al confronto fra il MS-1915 e l'edizione definitiva della Fiera Letteraria del 1926, dal quale emerge la mancanza, nel primo, della drammatica parte conclusiva dell'edizione (l'ultimo terzo del volume). Ciò induce a chiedersi quando e per quale motivo l'Autore abbia aggiunto questa parte, che rappresenta, per il romanzo, una svolta decisiva.</p><p>Riteniamo che al primo problema si possa rispondere mettendo in evidenza la possibilità di desumere l'ordine cronologico tra i vari foglietti fino al MS-1915, qualora si cerchi di rintracciare le varie fasi della trasformazione di un personaggio di nome Michelina nei foglietti rifiutati dall'Autore, personaggio in seguito soppresso e sostituito da Marco di Dio e dalla moglie Diamante nel MS-1915. Della ricostruzione di questo ordine cronologico si offre una rappresentazione grafica nella fig. 1.</p><p>Relativamente al secondo problema, derivante dal fatto che MS-1915 termina a metà del cap. 5 del testo della Fiera Letteraria e dal mancato ritrovamento del manoscritto contenente gli ultimi tre libri (lib. 6, 7, 8) che costituiscono il culmine del romanzo, si avanza qui un'ipotesi che a un primo sguardo può apparire improbabile, ma che si ritiene degna di considerazione. Un indizio di questa diversa prospettiva può essere individuato nella particolareggiata descrizione della co-protagonista Anna Rosa, che entra in scena solo al libro 7 e "solo del suo corpo pareva si compiacesse sempre…Se lo stava a mirare continuamente allo specchio, in ogni parte o tratto; a provarne tutti gli atteggiamenti, tutte le espressioni…Così, come per un gusto d'attrice"(lib.7). Secondo questo indizio, il personaggio femminile sarebbe modellato sull'attrice Marta Abba in persona, che venne scritturata solo il 25 febbraio 1925.</p><p>(View PDF for the rest of the abstract.)</p>
著者
藤谷 道夫
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.65, pp.1-36, 2015

<p>Nel 1302, come è noto, Dante fu condannato alla pena capitale ed esiliato da Firenze. Il doloroso episodio della vita del Poeta non può essere estraneo ai luoghi della Commedia in cui vengono presentati tre politici accusati ingiustamente: Pier della Vigna, Pier de la Broccia e Romeo di Villanuova. In questo lavoro, partendo dai testi relativi a questi personaggi, si vuole mostrare come dalle loro dolorose vicende Dante intenda far emergere il concetto di armonia provvidenziale. </p><p>In primo luogo, si vuole richiamare alla mente la terzina sui suicidi </p><p> </p><p>Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, </p><p>che cacciar de la Strofade i Troiani </p><p>con tristo annunzio di futuro danno. (Inf. XIII 10-12) </p><p> </p><p>A questo proposito, i commentatori si limitano a citare il virgiliano Aen. III 245-268, ma non procedono a precisare in cosa consista il tristo annunzio. Viceversa, si ritiene importantissimo considerare il modo in cui il presagio dell'Arpia, infelix vates dei destini troiani, sia giunto a realizzarsi: attraverso la terribile fame che constrinse i Troiani a divorare le rose mense prima di poter fondare una città. Il testo virgiliano mostra la realizzazione della profezia nelle parole di Iulo (Aen. VII, 112-119). Il testo dantesco, tuttavia, implica il senso che il triste annunzio dell'Arpia si trasformi in una benedizione, perché contiene in sé anche la conclusione degli affanni del viaggio. </p><p>Agli occhi del Poeta, questa vicenda appare legata all'azione della Provvidenza, individuabile anche nella storia di Giuseppe nella Genesi: Dio ha pensato di fare il male servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera (Gen. 50, 20). Le Arpie non sono qui per caso: si pascono delle foglie dei suicidi, simbolo dell'angustia di mente, della miopia dello spirito umano che non sa vedere oltre i propri affanni. Accurato simbolo di questa debolezza umana è Cavalcante padre nel X canto dell'Inferno, in cui emerge proprio la tipicità delle reazioni umane di fronte all'inquietudine arrecata dal pensiero del futuro. I suicidi, nel pensiero dantesco, sono quanti rinunziano al futuro arrendendosi alle difficoltà del presente e abbandonando la speranza e realizzando così la profezia dell'Arpia. </p><p>Così anche Dante viator, ammonito da Farinata sul futuro esilio, rimane "smarrito" (Inf. X 125): anch'egli avrebbe potuto subire lo stesso fato, anche se sappiamo che, tanto Farinata quanto l'Arpia, trovandosi all'Inferno, possono aver accesso solo a una conoscenza frammentaria del futuro, essendo ad essi tale conoscenza preclusa nella sua totalità. La colpa del suicida Pier della Vigna è l'aver giudicato e sentenziato per sé la pena di morte, arrogandosi un diritto che spetta solo a Dio, nonostante l'ammonimento che si trova in Tommaso (Summa II-II, q.64, a.5, ad.2) nullus est iudex sui ipsius. </p><p>Viceversa, Piero de la Broccia (Purg. VI) subisce la pena di morte affidandosi alla sorte e perdonando i suoi nemici, e per questo trova la salvezza (vv. 19-22), e Romeo di Villanuova (Par. VI) sceglie invece l'esilio e una vita condotta col "mendicare boccone per boccone il pane per vivere" (vv. 112-114; 124-142). In questa prospettiva, vediamo come nelle vicende di questi tre personaggi si racchiudano i tre possibili sviluppi della vita futura di Dante. </p><p>Cacciaguida, in Par. XVII, vedendo il futuro del discendente, gli indica la via da percorrere e si riferisce ad essa come dolce armonia (Par. XVII 43- 45). Gli mostra così come l'esilio non sia una maledizione, ma una benedizione e un vero onore, un dono del cielo. Di conseguenza, non si può trascurare di menzionare che la stessa dolce armonia è nominata anche all'inizio della descrizione della vita di Romeo (Par. VI 124-126). </p><p>La parola armonia si trova nella Commedia soltanto tre volte e soltanto nel Paradiso. Nel primo canto del Paradiso, Dante proclama che l'armonia </p><p>(View PDF for the rest of the abstract.)</p>
著者
CARLO EDOARDO POZZI
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.70, pp.99-123, 2020 (Released:2021-02-02)
参考文献数
46

Nabeshima Naohiro (1846-1921), fu un membro di rilievo della classe dirigente giapponese durante il periodo Meiji. Secondogenito di Nabeshima Naomasa (1815-1971), decimo daimyō del Dominio di Saga, nel 1861 il giovane Naohiro successe al padre e divenne l’undicesimo (e ultimo) daimyō di Saga. Sul finire del Periodo Edo egli partecipò attivamente alla Guerra Boshin (1868-1869), guidando le forze di Saga contro quelle dello Shogunato Tokugawa. In seguito alla Restaurazione Meiji del 1868 e all’abolizione del sistema han nel 1871, Nabeshima rinunciò al titolo di daimyō e, tra il 1871 e il 1873, viaggiò negli Stati Uniti e in Europa al seguito della Missione Iwakura in qualità di studente. Dal 1873 si stabilì poi in Inghilterra dove proseguì i suoi studi insieme ai suoi due fratelli Naotora e Naotō.Tornato in Giappone nel 1878, l’ex-daimyō svolse per il Ministero degli Esteri una serie di incarichi di rilievo. In particolare, nel 1879, dopo essere stato nominato responsabile dell’accoglienza del Principe imperiale di Germania Enrico di Prussia (1862-1929) e dell’ex presidente degli Stati Uniti Ulysses S. Grant (1822-1885) durante il loro soggiorno Tokyo, Nabeshima si occupò anche dell’accoglienza del Principe Tomaso Alberto Vittorio di Savoia (1854-1931), secondo Duca di Genova e cognato del Re d’Italia Umberto I (1844-1900), allora alla sua seconda visita ufficiale in Giappone. Fu proprio mentre stava accompagnando il Duca di Genova nelle principali città del Kansai tra il 21 e il 27 febbraio 1880, che Nabeshima fu nominato Inviato Straordinario e Ministro Plenipotenziario del Giappone in Italia per volere del Ministro degli Esteri Inoue Kaoru (1836-1915). Dopo aver ricevuto la nomina ufficiale dall’Imperatore Meiji (1852-1912) l’8 marzo dello stesso anno ed essere salpato da Yokohama il 9 luglio 1880, il 23 agosto Nabeshima sbarcò quindi a Napoli e poco dopo si insediò nella Legazione giapponese a Roma, occupandosi della sua gestione fino al giugno del 1882.Durante il suo soggiorno in Italia in qualità di Ministro Plenipotenziario, Nabeshima strinse fin da subito solide relazioni di amicizia con la famiglia reale italiana e in particolare con il Re Umberto e la Regina consorte Margherita di Savoia (1851-1926), sorella del Principe Tomaso. Già nel settembre del 1880, i due sovrani organizzarono per il neoministro giapponese una cena di gala presso la Villa Reale di Monza, come segno di riconoscenza per l’accoglienza da lui riservata in Giappone al Duca di Genova. Inoltre, a pochi mesi dall’assunzione del suo incarico di Ministro Plenipotenziario a Roma, il 3 novembre 1880, giorno del compleanno dell’Imperatore Meiji, Nabeshima fu decorato dal Re del Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia. Successivamente, le relazioni con la coppia reale si fecero via più intime tanto che, quando Nabeshima si sposò alla Legazione con Hirohashi Eiko (1855-1941), il Re volle subito riceverli a corte per congratularsi con loro, mentre, alla nascita della figlia Itsuko (1882-1976) il 2 febbraio 1882, la Regina Margherita si premurò di farle un regalo.Nel frattempo, Nabeshima partecipò attivamente alla vita sociale dell’alta società romana, prendendo parte a numerosi eventi mondani insieme a figure di rilievo della classe dirigente italiana. Nabeshima stesso organizzò presso la Legazione giapponese sontuose feste da ballo e cene di gala, che vennero spesso elogiate dai principali quotidiani romani e nazionali. Fu probabilmente anche grazie a questi eventi tenuti alla Legazione, e alla sua profonda conoscenza dell’etichetta e della cultura europee, che il Ministro giapponese godette di un’alta reputazione tra i membri dell’establishment italiano, diventando noto a tutti come “Principe Nabeshima”.Per di più, durante i circa due anni di soggiorno in Italia come Ministro(View PDF for the rest of the abstract.)
著者
岩倉 具忠
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.40, pp.1-16, 1990-10-20 (Released:2017-04-05)

Mi sono interessato particolarmente alla parte del canto XV del "Paradiso" che costituisce il preambolo al famoso incontro con Cacciaguida, in cui il trisavolo del poeta rivolge a Dio parole incomprensibili ai mortali. Si tratta di un linguaggio mistico che il poeta non ha modo di intendere. Gli angeli e i beati non hanno bisogno di nessun mezzo di comunicazione, perche la loro intelligenza non viene coperta "cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus". Essi mirano "nello speglio in che, prima che pensi, il pensier pandi". Non era necessario quindi per un beato come Cacciaguida parlare a Dio che "tutto discerne". Ci deve esere un altro motivo per cui egli parla. A mio parere nelle parole che Cacciguida rivolge a Dio vi e un elemento mistico e liturgico. Nel "De vulgari eloquentia" Dante spiega l'origine della lingua umana, basandosi sulla narrazione del "Ggenesi", ma aggiunge delle considerazioni personali che non si trovano nel testo originale. Il poeta pensa che Adamo abbia cominciato a farsi sentire prima che a sentire, perche nell'uomo il farsi sentire e piu essenziale che il sentire. Adamo, unico uomo esistente, avrebbe rivolto la sua prima parola a Dio per farsi intendere. Ma Dio discerne tutti i segreti della mente del primo uomo, e non c'era necessita che Adamo parlasse. Dio tuttavia volle che anch' egli parlasse, affinche fosse gloirficata la Sua opera. Io penso che Cacciaguida rivolga le sue parole a Dio per una ragione analoga : glorificare l'opera del Signore, ringraziandolo per l'eccezionale generosita con cui ha concesso al suo discendente l'alta missione di "scriba Dei". Di fatto il linguaggio mistico di Cacciaguida si configura come uno sfogo religioso simile a una preghiera. Una situazione non molto diversa si puo osservare nel dialogo tra Dante e Cacciaguida. Dal momento che quest' ultimo prevede tutto quanto il poeta concepisce nella mente senza che venga espressa con il linguaggio, non sarebbe stato necessario che Dante si esprimesse. Cio nonostante il trisavolo gli chiede di parlare con voce "sicura, balda e lieta". Anche qui si tratta di un atto prettamente rituale. Che significato ha dunque in Dante il ricorso a tale azione rituale? Senza dubbio il poeta voleva conferire autorita alla missione decretata dall' Eterna Volonta senza tuttavia esplicitarne il vero significato. In conclusione il linguaggio mistico nel episodio considerato e un artificio retorico utilizzato abilmente dal poeta per rendere ancora piu solenne l'incontro memorabile con il suo trisavolo.