- 著者
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星野 倫
- 出版者
- イタリア学会
- 雑誌
- イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
- 巻号頁・発行日
- vol.66, pp.53-76, 2016 (Released:2017-12-09)
- 参考文献数
- 69
Scopo di questa indagine è l’esame di una delle rare testimonianze esterne utili alla datazione della Monarchia dantesca, vale a dire l’inciso «sicut in Paradiso Comedie iam dixi» (Mon. I, xii, 6), e valutarne la portata. La scelta di accoglierlo in senso letterale comporta necessariamente che la Monarchia sarebbe l’ultima opera scritta da Dante dopo il compimento della Commedia, ma questo non impedisce che il dibattito tra gli studiosi sia tuttora aperto, e da più di cento anni.L’ultima edizione critica dell’opera (Shaw 2009) prende in considerazione venti manoscritti più l’editio princeps. Tra questi ventuno testimoni, solo all’editio princeps manca la frase in questione, degli altri, sedici la riportano interamente, due mostrano solo piccole variazioni che non alterano la sostanza del brano, mentre gli ultimi due presentano l’omissione di alcune parole.In questo luogo, dunque, la princeps presenta una lectio singularis. Non è da escludere che l’omissione sia in qualche modo riconducibile all’errata paternità della Monarchia riferita dal curatore della cinquecentina, Oporino. Questi, infatti, nell’introduzione attribuisce il trattato non all’autore della Commedia ma a un omonimo filosofo, un Dante Alighieri contemporaneo e amico di Poliziano. La frase, dunque, sarebbe stata cassata dall’editore in buonafede (e si tratterebbe, pertanto, di una emendatio di ciò che ai suoi occhi era un errore) o meno (e si potrebbe parlare, in questo caso, di falsificazione). Il testo della princeps, piuttosto curato, fu più volte ristampato.Solo nel 1965, però, con l’edizione nazionale curata da Pier Giorgio Ricci, è stata definitivamente fissata a testo la lezione «sicut in paradiso Comedie iam dixi», confermata più tardi nell’edizione Shaw 2009. In essa si evidenzia che la mancanza di quell’inciso nelle edizioni otto-novecentesche del volgarizzamento di Marsilio Ficino del trattato politico è frutto del taglio dei curatori, giacché in tutti i testimoni della traduzione la frase in questione – in volgare – è presente).Recentemente Diego Quaglioni, curatore dell’edizione mondadoriana dell’opera, ha proposto una nuova lettura di questo passo sulla base di un nuovo manoscritto londinese (British Library, Add. 6891), con la congettura «sicut inmissum a Domino inmediate iam dixi» (il ms. presenta «sicut inminuadiso inmediate iam dixi»). L’ipotesi, tuttavia, è alquanto forzata, e sminuisce il resto della tradizione manoscritta.Un possibile indizio esterno utile alla datazione è stato portato alla luce qualche anno fa da Giorgio Padoan: il riferimento, nell’epistola a Cangrande della Scala, alle «alia utilia reipublice» (Ep. XIII, 88). Qui Dante si scusa con lo Scaligero di non poter proseguire il suo commento al Paradiso e di non portare a termine “altre attività di interesse pubblico”: generica definizione che Padoan riferisce al completamento della Monarchia. L’ipotesi potrebbe parere arbitraria, ma un’indagine sull’uso dell’aggettivo «publicus» in Dante potrebbe forse contribuire a chiarire la questione: esso, infatti, ricorre venticinque volte nelle opere dantesche, e in dodici di queste a formare l’espressione «rei publice». Dieci occorrenze sono concentrate in Monarchia II, v, in corrispondenza di una citazione ciceroniana; in precedenza (Monarchia I, i, 2-3) Dante dichiara la speranza di scrivere un libro utile all’interesse pubblico, mentre l’ultima si trova nel passo sopra citato dell’epistola a Cangrande. Pare dunque ragionevole ipotizzare che «alia utilia reipublice» possa alludere proprio alla Monarchia, il che sposterebbe significativamente in avanti la datazione dell’opera, vale a dire dopo la redazione della suddetta epistola.Oltre quanto esposto fin qui, infine, si ritiene opportuno tenere in considerazione anche due testi di Giovanni(View PDF for the rest of the abstract.)