著者
鈴木 信吾
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.41, pp.84-103, 1991-10-20

Nell'italiano letterario di oggi, i pronomi soggetto della terza persona egli ed ella, come pure esso, essa, essi, esse e diversamente da lui, lei, loro, hanno alquante proprieta comuni ai pronomi clitici : non possono, ad esempio, essere coordinati ad un altro sintagma nominale (gli esempi qui esposti sono tratti dal lavoro di A. Calabrese) : *egli e Maria sono venuti ieri ne possono apparire in assenza di un verbo : (che e stato?)--*egli. Questi pronomi tuttavia non vanno considerati come clitici, perche possono essere separati dal verbo da altri elementi lessicali : egli, veramente, si e comportato in altra maniera. Lo status dei pronomi egli, ella, ecc. quindi e molto incerto. Nel presente saggio abbiamo cercato di esaminare lo status attuale di egli, ella in chiave diacronica, confrontando cioe la loro situazione nell'italiano moderno con quella nel fiorentino nelle sue fasi antiche e moderne. Nel fiorentino antico, i pronomi egli (s. e pl.), ella, elle, ecc., che non avevano le limitazioni viste sopra e che quindi erano in tutto e per tutto pronomi liberi, hanno cominciato a sviluppare accanto a se, gia prima del Quattrocento, una nuova serie di pronomi, ossia quella con forme ridotte. Fra questi pronomi ridotti, ce ne sono tre, a quanto pare, che funzionavano per l'appunto come clitici : gli (s. e pl.), la e le infatti apparivano solo immediatamente davanti a un verbo. I pronomi clitici della seie gli si trovavano inizialmente soltanto nella proposizione subordinata e si sono estesi poi, dopo la seconda meta del Quattrocento, via via anche alla principale, allargando cosi la possibilita di alternarsi con i pronomi liberi della serie egli. Nel Settecento il fiorentino vivo presenta la tendenza ad avere le due serie in questione come varianti posizionali, in conseguenza del fatto che la serie egli nel dialetto si e ridotta per lo piu a cliticizzarsi dopo un verbo. Questa serie poi scompare totalmente dal fiorentino moderno, per cui sono rimasti come clitici solo i preverbali e/gli, la le (e e la variante preconsonantica di gli). In conclusione, i pronomi della serie egli nell'italiano moderno sembrano mostrare una certa "esitazione" davanti allo svolgimento proceduto, dal Cinquecento in avanti, in due direzioni distinte : una verso la tradizione letteraria, che tende a mantenere le proprieta dei pronomi liberi a quelli di questa serie ; l'altra verso il rinnovamento dialettale, che ha sviluppato in base ad essi i clitici soggetto, Possiamo pensare pertanto che sia questa "esitazione" a determinare lo status incerto osservabile nei pronomi attuali egli ed ella.
著者
藤谷 道夫
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.65, pp.1-36, 2015 (Released:2017-03-27)
参考文献数
36

Nel 1302, come è noto, Dante fu condannato alla pena capitale ed esiliato da Firenze. Il doloroso episodio della vita del Poeta non può essere estraneo ai luoghi della Commedia in cui vengono presentati tre politici accusati ingiustamente: Pier della Vigna, Pier de la Broccia e Romeo di Villanuova. In questo lavoro, partendo dai testi relativi a questi personaggi, si vuole mostrare come dalle loro dolorose vicende Dante intenda far emergere il concetto di armonia provvidenziale. In primo luogo, si vuole richiamare alla mente la terzina sui suicidi  Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de la Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. (Inf. XIII 10-12)  A questo proposito, i commentatori si limitano a citare il virgiliano Aen. III 245-268, ma non procedono a precisare in cosa consista il tristo annunzio. Viceversa, si ritiene importantissimo considerare il modo in cui il presagio dell’Arpia, infelix vates dei destini troiani, sia giunto a realizzarsi: attraverso la terribile fame che constrinse i Troiani a divorare le rose mense prima di poter fondare una città. Il testo virgiliano mostra la realizzazione della profezia nelle parole di Iulo (Aen. VII, 112-119). Il testo dantesco, tuttavia, implica il senso che il triste annunzio dell’Arpia si trasformi in una benedizione, perché contiene in sé anche la conclusione degli affanni del viaggio. Agli occhi del Poeta, questa vicenda appare legata all’azione della Provvidenza, individuabile anche nella storia di Giuseppe nella Genesi: Dio ha pensato di fare il male servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera (Gen. 50, 20). Le Arpie non sono qui per caso: si pascono delle foglie dei suicidi, simbolo dell’angustia di mente, della miopia dello spirito umano che non sa vedere oltre i propri affanni. Accurato simbolo di questa debolezza umana è Cavalcante padre nel X canto dell’Inferno, in cui emerge proprio la tipicità delle reazioni umane di fronte all’inquietudine arrecata dal pensiero del futuro. I suicidi, nel pensiero dantesco, sono quanti rinunziano al futuro arrendendosi alle difficoltà del presente e abbandonando la speranza e realizzando così la profezia dell’Arpia. Così anche Dante viator, ammonito da Farinata sul futuro esilio, rimane “smarrito” (Inf. X 125): anch’egli avrebbe potuto subire lo stesso fato, anche se sappiamo che, tanto Farinata quanto l’Arpia, trovandosi all’Inferno, possono aver accesso solo a una conoscenza frammentaria del futuro, essendo ad essi tale conoscenza preclusa nella sua totalità. La colpa del suicida Pier della Vigna è l’aver giudicato e sentenziato per sé la pena di morte, arrogandosi un diritto che spetta solo a Dio, nonostante l’ammonimento che si trova in Tommaso (Summa II-II, q.64, a.5, ad.2) nullus est iudex sui ipsius. Viceversa, Piero de la Broccia (Purg. VI) subisce la pena di morte affidandosi alla sorte e perdonando i suoi nemici, e per questo trova la salvezza (vv. 19-22), e Romeo di Villanuova (Par. VI) sceglie invece l’esilio e una vita condotta col “mendicare boccone per boccone il pane per vivere” (vv. 112-114; 124-142). In questa prospettiva, vediamo come nelle vicende di questi tre personaggi si racchiudano i tre possibili sviluppi della vita futura di Dante. Cacciaguida, in Par. XVII, vedendo il futuro del discendente, gli indica la via da percorrere e si riferisce ad essa come dolce armonia (Par. XVII 43- 45). Gli mostra così come l’esilio non sia una maledizione, ma una benedizione e un vero onore, un dono del cielo. Di conseguenza, non si può trascurare di menzionare che la stessa dolce armonia è nominata anche all’inizio della descrizione della vita di Romeo (Par. VI 124-126). La parola armonia si trova nella Commedia soltanto tre volte e soltanto nel Paradiso. Nel primo canto del Paradiso, Dante proclama che l’armonia (View PDF for the rest of the abstract.)
著者
菅野 類
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.56, pp.217-240, 2006-10-21

Nel 1779 Alfieri ideo la sua "terza tragedia di liberta", Timoleone. II tiranno dell'opera, Timofane, e posseduto dell'ambizione del potere e massacra i concittadini della posizione contraria. Pero gli altri personaggi del dramma cercano di farlo ritornare sulla via retta, perche credono ancora nella possibilita del suo rawedimento. Alia fine, Timofane e ferito mortalmente ma si pente e muore chiedendo scusa all'eroe. Lo svolgimento sembra significative se ci ricordiamo che nelle opere antecedenti Alfieri descrive tiranni solo come mostri incorreggibili. L'immagine di un tiranno che si rawede non e forse un mutamento del sentimento che l'autore ha nei confornti dei principi? La caratterizzazione di Timofane non e un risultato casuale. Alia fase di ideazione, Alfieri dispone Timofane come un tiranno solo violento e irascibile, accettando passivamente l'impostazione pultarchica. Ma attraverso rielaborazioni, rifmta il modello originale e modifica la figura di Timofane piu umana e generosa. Se Alfieri equiparasse ancora i principi ai tiranni, dovrebbe seguire l'impostazione originale per rappresentare tali sentimenti, anzi farebbe meglio a intensificarla. Sarebbe difficile da comprendere questo tipo di cambiamento se non prendiamo in considerazione la diminuzione graduale della sua awersione verso principi. La figura del tiranno compie delle metamorfosi nelle opere successive. Nella "quarta tragedia di liberta", Agide, il tiranno non si presenta come l'oggetto da abbattere, ma quello da persuadere per contribuire al bene pubblico. Poi, nel Panegirico di Plinio a Trajano non appare un tiranno, ma un "ottimo principe", a cui Plinio invoca la rinascita della repubblica romana, ma invano. Tradizionalmente questa opera viene interpretata come il rifiuto dell'assolutismo illuminato da parte dell'autore. Ma a considerazione del percorso dal Timoleone al Panegirico, sembra piu naturale trovarci una speranza nel principe, anche se non esplicita. Inoltre, dovremo tenere in conto il fatto che quando fu pubblicato il terzo volume dell'edizione senese delle tragedie, Alfieri dono il libro ai vari principi. La donazione volontaria del libro mi sembra un'azione simbolica dell'avversione attenuata per i principi. Quindi, un'opera come Timoleone, che e tanto trascurata finora, dovrebbe essere rivista come una svolta importante dell'immagine alfieriana sul principe. Questo significherebbe che il conservatismo alfieriano si era gia manifestato ben prima della Rivoluzione. Se fosse accettata quest'ipotesi, bisognerebbe reinterpretare anche le altre opere successive del Timoleone.
著者
木村 容子
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.57, pp.239-264, 2007-10-20

A partire dal Duecento nelle citta italiane i predicatori itineranti, tra cui soprattutto i frati mendicanti, si dedicarono attivamente alla predicazione nella quale risalta la loro presa di iniziativa nei grandi movimenti devozionali, come l'Alleluia del 1233, i flagellanti del 1260, e i Bianchi del 1399. Trattando i diversi temi sulla societa cittadina : dal governo della citta, il commercio alla vita familiare, nel Quattrocento la predicazione ebbe un ruolo molto profondo nella vita cittadina. E necessario ricostruire il programma della predicazione per analizzare le prediche all'interno dell'ambiente sociale e culturale nel quale esse si svolsero. Da chi e in the modo furono organizzate? In questo saggio vengono considerate le richieste di predicazione fatte dalle autorita civiche, esaminando le lettere che furono scambiate tra gli interessati alla predicazione come i governanti, i predicatori e i loro ordini. Le autorita civiche ebbero bisogno dei predicatori popolari allo scopo di soddisfare i bisogni spirituali dei cittadini, salvare le loro anime e anche formare un'opinione pubblica favorevole al governo. Soprattutto per la quaresima le citta usavano anticipatamente le migliori tattiche diplomatiche per aggiudicarsi un predicatore famoso. Provero a mostrare come le citta italiane quattrocentesche desiderarono zelantemente la predicazione e ne influenzarono il contenuto.
著者
藤村 昌昭
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.52, pp.44-80, 2002-10-25

-I vocaboli in -co fanno il plurale in -chi o in -ci? -Ahime, quale regola?La regola non c'e. -Ma, senza regola alcuna, bisogna rimettersi all'uso, e a quello ubbidire. -Anzi, in caso di incertezza, consultare il vocabolario. -No.In questa materia, il vocabolario ci offre solo una malinconica conferma.-Proprio cosi.Solo il tempo puo risolvere, e risolvera senz'altro, questa maledetta desinenza. -Secondo me, l'estrema mobilita della lingua rende difficili e inutili condificazioni troppo rigide. -In conclusione, non e possibile argomentare nessuna regola pratica.Ma dobbiamo proprio continuare con lo stillicidio dei nomi considerati uno per uno?Non la finiremo mai piu.Tentiamo, in mancanza di meglio: poi ce la caveremo con i soliti, necessariamente incompleti, consigli pratici.Come tutti gli altri vocaboli che terminano in -o, anche quelli in -co e -go formano il plurale mutando la loro desinenza in -i.Ma, nel passaggio dal singolare al plurale, alcuni escono in -chi e -ghi, conservando il suono gutturale; altri invece in -ci e ^gi, mutando in palatale; e altri, ancora presentano tutte e due le forme.In linea di massima, se sono piani (con accento sulla penultima sillaba), conservano le consonanti gutturali, ed escono quindi in -chi e -ghi; se sono sdruccioli (con accento sulla terzultima sillaba), invece, le perdono e assumono i suoni palatali/t〓/e/d〓/.Ma ci sono molte eccezioni a questa regoletta generale.Ecco amico (parola piana) che diventa amici e, viceversa, carico (parola sdrucciola) che diventa carichi.Da questo che si e detto, appare chiaro quante incertezze vi siano nell'uso del plurale per i vocaboli in -co e -go; in particolare, i dubbi maggiori nascono dai sdruccioli in -chi e -ghi.Questo gran numero di oscillazioni e le difficolta che si incontrano a cercare di stabilire un comportamento preciso in merito, hanno indotto molti grammatici a formulare un giudizio scettico su qualunque tentativo di sistemazione per questo settore della formazione del plurale.Qual e la ragione di tutte queste oscillazioni?Della palatalizzazione che dev'essere stato raggiunto il primo stadio a partire dalla fine del III secolo.Ilentativo di codificare delle norme coerenti e esaurienti, in realta, non e possibile senza un esame storico-scientifico di ciascun vocabolo, dal momento che la grafia non disponeva di mezzi idonei a simboleggiare articolazioni palatali.Sara, si capisce, una lunga fatica ed anche piena di trappole.Ma grazie ai doni tecnologici come i CD-ROM di GDU e LIZ e anche grazie agli antichi testi scritti in volgare reperiti negli archivi, si potranno subito richiamare dal passato mumerosi esempi contrari agli schemi che poi si consolideranno: amichi, nemichi, grechi, porchi da una parte; sindachi, pratichi, domestichi, teologhi dall'altra.Ora cambiamo un po'il nostro punto di vista, vale a dire con questa difettosa desinenza(-co e ^go) si pensa, da una parte, a un nome o a un aggettivo, ma dall'altra, o per meglio dire, nello stesso tempo, alla seconda persona del presente dei verbi che all'infinito terminano in -care e -gare, dove si conserva il suono gutturale(-chi e -ghi), inserendo una "H" per indicarlo graficamente.E questa terminazione con H, sioe con suono gutturale, e assolutamente obbligatorioa, in tutte le forme in sui la desinenza incomincia per E o per I : l'indicativo futuro, il condizionale presente e il congiuntivo presente.Concludiamo con una rapida riflessione.Una volta sulla desinenza dominava il suono gutturale (amichi, pratichi, carishi) secondo una tendenza o volonta conservatrice contraria ad un suono difforme dall'originale.Poi gli sdruccioli provocaono la palatalizzazione secondo un "atavismo" linguistico, sioe una "economia"fonetica effettuata, una volta, nel latino volgare.E cosi, alcuni mutano in palatale(pratici, critici)liberandosi dai verbi corrispondenti, altri, invece, ne sono rimasti dipendenti(carichi, dialoghi).Mi auguro che in questa noema si scioglierano tutte le regolette che erano, una volta, clamorosamente smentite dalle immancabili eccezioni.Ormai nessuno direbbe sindachi invece di sindaci, ma c'era un tempo in sui la Penisola era piena di "SINDACHI"!
著者
野村 雅夫
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.59, pp.183-208, 2009-10-17 (Released:2017-04-05)

Il presente saggio si prefigge di mettere in luce come Pier Paolo Pasolini, autore che si esprime sia mediante la letteratura (poesia e romanzo) sia mediante il cinema, considerasse la sceneggiatura, da lui ritenuta importante forma intermedia di collegamento tra i due mezzi espressivi. Il nostro scopo e quello di aggiungere un tassello, per quanto piccolo, alla comprensione ancora incompleta in Giappone di un autore cosi complesso. Pasolini intrattiene i primi contatti con il mondo attraverso la sua collaborazione alla sceneggiatura de La donna del fiume di Mario Soldati nel 1953. Da allora, se si comprendono anche quelle non realizzate, si occupa di 36 sceneggiature, quasi tutte concentrate nel periodo che va fino al 1962. Questo lavoro di sceneggiatore, che fa soprattutto per vivere, provoca in Pasolini autore due tipi di insoddisfazione: uno e il sentirsi "insabbiato" nel sistema spesso adottato di far scrivere la sceneggiatura a piu mani e l'altro, nel caso fortunato in cui possa scrivere da solo, il vedere sfasata nella pellicola l'immagine concepita in fase di scrittura. Si trova cioe nella situazione antinomica di "artigiano" che deve applicarsi al lavoro commissionatogli e di "artista" che mira a ottenere la propria espressione personale. Questo conflitto, unito alle sue esperienze come regista, lo induce a riflettere sulla natura della sceneggiatura. I suoi pensieri si condensano nel saggio del 1965 La sceneggiatura come "struttura che vuol essere un'altra struttura", in cui Pasolini giunge alla conclusione originale che la sceneggiatura "puo essere considerata una 'tecnica' autonoma, un'opera integra e compiuta in se stessa". Quando un autore adotta la "tecnica" della sceneggiatura, accetta come struttura della sua "opera in forma di sceneggiatura" l'allusione a un'opera cinematografica "da farsi". Struttura, questa, che non esiste in altri prodotti letterari e che comporta una collaborazione particolare da parte del lettore. Nella sceneggiatura infatti il "segno" allude al significato secondo la strada percorsa comunemente delle lingue scritte e nel contempo allude allo stesso significato rimandando al film da farsi. L'autore di una sceneggiatura ha quindi necessita di chiedere al lettore una partecipazione assai piu intensa di quella richiesta per esempio da un romanzo. Senza questa operazione di collaborazione, la sceneggiatura appare incompleta, dal momento che l'incompletezza ne rappresenta un elemento stilistico. Con l'intervento attivo del lettore diventa dunque completa, generando in modo quasi automatico la visualizzazione del film da farsi. Nella sceneggiatura, cioe, oltre al "grafema" e al "fonema", agisce a livello della coscienza del lettore un terzo elemento essenziale, quello del "cinema". Pasolini definisce i cinemi come "immagini primordiali, monadi visive", che si staccano dagli altri due elementi, diventano autonome e, coordinandosi, costituiscono un sistema di "im-segni" a parte. Fondamentale e il fatto che la struttura della sceneggiatura e dinamismo puro, tensione che si muove dalla struttura stilistica narrativa della letteratura verso la struttura stilistica del cinema. Questo dinamismo permette, nella sceneggiatura, di definire in termini strutturali i due stadi, la struttura letteraria e quella cinematografica, e nel tempo stesso di rivivere empiricamente il passaggio dall'uno all'altro. Il saggio qui esaminato considera gli aspetti strutturali della sceneggiatura analizzandone la peculiarita in modo del tutto teorico. E percio possibile ricevere l'impressione che l'argomento non sia stato del tutto sviscerato e per questa ragione alcuni studiosi hanno effettivamente parlato di punti deboli nella teoria pasoliniana. Tuttavia,(View PDF for the rest of the abstract.)
著者
斎藤 泰弘
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.45, pp.25-52, 1995-10-20

Nel 1483 Leonardo riceve-dalla Confraternita dell'Immacolata Concezione della B.V.M., a Milano-la commissione di una pala d'altare. Il 1483 e anche l'anno in cui i contrasti e le dispute tra gli "immacolisti" francescani e i "macolisti" domenicani raggiungono il culmine. Collegando questi due fatti mi sembra assai ragionevole supporre che la "Vergine delle Rocce" (o, per l'esattezza, la sua versione di Londra), l'opera appunto destinata originariamente ad ornare l'altare della Confraternita, rappresenti in qualche modo le posizioni teologiche della Confraternita stessa. Scopo di questo saggio e di verficare se l'opera in questione rappresenti veramente l'Immacolata Concezione e, nel caso affermativo, di analizzare in che modo essa ne illustri iconograficamente la dottrina. Nel primo capitolo, ricercando le fonti della "Disputa sulla Immacolata Concezione" (1502) del pittore lucchese Vincenzo Frediano-l'opera che per la prima volta nella storia riesce ad esprimere la dottrina sull'Immacolata in modo originale, senza far ricorso ad altre iconografie tradizionali-, si dimostra che questa opera si ispira ad un episodio miracoloso (e coseguente ex-voto) riferito dal milanese Bernardino de Busti nel suo Mariale (1493), e che essa inoltre riflette vivamente, se pure a distanza di tempo e di luogo, la situazione religiosa e sociale di Milano, all'epoca della commissione fatta a Leonardo della pala d'altare in questione. Nel secondo capitolo, cercando di identificare il tipo iconografico tradizionale della seconda meta del Quattrocento relativo all'Immacolata Concezione, avanzo l'ipotesi che "l'Adorazione del Bambino" costituisca l'equivalente iconografico lombardo dell'Immacolata. Nel terzo e quarto capitolo, analizzando dettagliatamente le clausole del contratto del 1483 tra la Confraternita e gli artisti, e confrontandole con i primi disegni preparati da Leonardo per la "Vergine delle Rocce", si dimostra che il tema iconografico su cui si accordarono le due parti al momento del contratto era quello dell'"Adorazione del Bambino", e che invece la "Vergine delle Rocce" non e altro che una variante successiva. In fine, passo ad esaminare la recente ipotesi interpretativa di G. Ferri Piccaluga (1990) secondo la quale la "Vergine delle Rocce" illustra la rinnovata concezione antropologica della "Apocalypsis Nova" scritta da Amedeo Mendez da Silva, fondatore degli Amadeiti e morto a Milano nel 1482. D'accordo con l'opinione della Piccaluga che il tema della "Madonna con il Bambino e San Giovannino Battista"-divulgato specialmente da Raffaello dopo il 1504, sotto influsso leonardesco-appartenga all'iconografia dell'Immacolata, propongo inoltre di affrontare un problema non ancora risolto : quello di chiarire cioe che cosa significhi teologicamente la frequente presenza di San Giovannino Battista nel contesto iconografico dell'Immacolata Concezione.
著者
鈴木 国男
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.41, pp.10-37, 1991-10-20

Le figure femminili nelle opere di Goldoni rivelano varie fasi nella sua attivita teatrale cronologicamente parlando. La prima fase comincia con "La donna di garbo" che e la sua prima commedia interamente scritta. Garbo, per Goldoni, significa "intelligente" o "spiritosa". La protagonista Rosaura riesce a farsi sposare con l'amante che, in precedenza, l'aveva lasciata per un'altra donna proprio grazie a questa sua virtu. Seguono "La putta onorata" e "La Pamela" le cui protagoniste, come la precedente, conservano le loro virtu nel caso delle vicende subite contro la loro volonta. Le virtu femminili costituiscono quindi il nucleo di non poca parte delle commedie goldoniane di questo periodo. Ma le virtu sono ancora manifestate in modo piuttosto passivo come reazioni contro gli interventi altrui. Col passare del tempo e con la partecipazione alla compagnia della nuova "servetta" Maddalena Marliani, Goldoni comincio a creare altri tipi di donne. Questa nuova tendenza vide la sua piena espressione in "La castalda". Qui la protagonista insegue il proprio interesse con la massima audacia e astuzia per mezzo delle quali riesce a ottenere tutto cio che vuole. L'esito piu felice di questa tendenza e "La locandiera". Mirandolina e una donna indipendente e spregiudicata che gode di una certa liberta e conquista gli uomini nel modo piu scaltro che mai soltanto per la propria soddisfazione, senza mettre a rischio l'equilibrio della vita sia sociale sia sentimentale. La terza fase prese inizio con la collaborazione con la compagnia del Teatro S. Luca dove la prima donna era diventata Caterina Bresciani. Il loro primo trionfo fu conseguito con "La sposa persiana". In tale lavoro teatrale, sia la forma di tragi-commedia sia grazie all'introduzione di un ambiente esotico (quello persiano) assistiamo alle rivendicazioni e alle lotte di una donna fiera e agressiva come non se ne erano incontrate in precedenza. D'altra parte, "La putta onorata", "La Pamela" e "La sposa persiana" hanno avuto un seguito in una o due opere successive con gli stessi personaggi. Ma come dichiara l'autore stesso nella prefazione di "Le smanie per la villeggiatura", queste sono semplici riprese da opere precedenti, dato che ebbero gran successo e non furono scritte con l'intento di comporre un insieme omogeneo. In conseguenza non ebbero gli esiti cosi felici come le precedenti, ne presentarono qualche novita nei caratteri dei personaggi. A differenza di tali opere, "La trilogia della villeggiatura" fu scritta in partenza con l'intenzione esplicita di comporre una vera trilogia, mantenendo gli stessi personaggi nei diversi luogi e nei diversi ambienti. Fu un unicum nell'attivita teatrale di Goldoni, denso di notevoli conseguenze. Ho esaminato le caratteristiche strutturali della Trilogia soprattutto dal punto di vista particolarmente topologico in "Composizione della Trilogia della Villeggiatura". In questo articolo mi sono proposto di mettere a fuoco le figure femminili menzionate qui sopra e mettere in rilievo l'originalita rispetto alle sia pur necessarie opere precedenti. La protagonista della Trilogia, Giacinta, non e piu una donna che sopporta la poverta o la schiavitu ne e una donna che lavora per conto proprio come Mirandolina. E una fanciulla della classe borghese abbastanza benestante la cui ambizione (che viene criticata dall'autore) e far bella fugura imitando, con ostentazione, il comportamento dei nobili a cui non appartiene ; e cio in modo vistoso e ridicolo. Come Mirandolina, Giacinta proclama la propria liberta e sa combattere con gli uomini e con la rivale. Sa cio che vuole ottenere, cioe l'indipendenza e l'iniziativa nei confronti degli altri personaggi ; in realta, non sono cose che si possono conseguire combattendo, ma che sono proprie del personaggio Giacinta fin dall'inizio. Non ha neanche bisogno di vendicarsi. Ha soltanto paura di perdere la propria disponibilita col fidanzarsi, giacche non conosce ne il vero amore ne la vita matrimoniale. Cosi, seguendo tutto secondo la propria volonta e pur trionfando su tutti gli altri, perde la propria liberta e il piacere della villeggiatura.
著者
菅野 類
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.61, pp.147-171, 2011-10-15

Fra gli intellettuali italiani attivi in un periodo denso di inquietudini come quello degli ultimi decenni del Settecento, spicca la figura di Alessandro Verri (1741-1816). Questi, dopo la breve attivita giornalistico-illuministica nel periodico milanese <<Il Caffe>>, si ritira a vita privata stabilendosi a Roma nel 1767. Il suo nome riappare al pubblico solo quindici anni dopo con il romanzo Le Avventure di Saffo, che conosce un grande successo editoriale grazie allo stile raffinato e al tema carico di pathos. Da un esame della sua impostazione intellettuale, risulta interessante il fatto che il romanziere cercasse di trasmettere una visione pessimistica della passionalita, tema che puo essere individuato anche in altre sue opere. Questa scelta sembra non solo segnare un netto distacco ideologico dalla sua posizione giovanile, ma anche anticipare un tema letterario abbastanza singolare nel contesto culturale dell'epoca: la tragicita delle passioni. Il presente lavoro intende chiarire il processo tramite il quale nel Verri maturo precocemente l'interesse per questo tema, rintracciando i suoi numerosi riferimenti ai sentimenti e alla sensibilita. Contrariamente alla visione pessimistica tipica della fase romana, durante il periodo de <<Il Caffe>> il Verri fu uno dei fautori piu appassionati dell'utilita dei sentimenti, esaltandone i lati positivi allo scopo di attaccare il rigido autoritarismo, soprattutto in campo intellettuale. Il suo "sentimentalismo" non ha un carattere originale, poiche il Verri seguiva la corrente filosofica dell'epoca, ma resta comunque degno di nota il fatto che alcuni dei suoi articoli fossero gia intrisi di una percezione negativa delle passioni umane. Seppure il valore dei sentimenti sia sempre rimasto un fermo criterio di giudizio, il pensiero verriano viene messo alla prova con il viaggio in Europa in compagnia di Cesare Beccaria. Di fronte alle inquietudini del compagno e alle dolorose esperienze relative al contatto con i filosofi francesi, viene concepita via via sempre piu consapevolmente la negativita delle passioni. In tale processo si profila gradualmente la duplicita del suo atteggiamento nei confronti dei sentimenti: esaltazione sul piano teorico e scetticismo su quello pratico. Allo scopo di spiegare lo sviluppo del pensiero verriano, e opportuno prendere in considerazione l'ambiente familiare sotto il cui peso si sentivano oppressi i fratelli Verri: l'avversione all'autorita paterna, infatti, rappresento uno dei motivi piu importanti che li avevano condotti alle attivita illuministiche. Tuttavia, la maturita intellettuale di Pietro contribui fortemente a orientare la presa di posizione del fratello minore, a dispetto della sua intima natura. Numerose espressioni e idee somiglianti negli scritti dei due fratelli attestano la forte influenza ideologica esercitata dal fratello maggiore. Confermata la caratteristica eteronoma del sentimentalismo di Alessandro, sembra naturale che la fede in quel criterio sia venuta meno con il distacco fisico dal maestro e che, nello stesso tempo, ad essa sia subentrata una visione pessimistica peraltro gia latente. Il sentimentalismo verriano attraversa una nuova fase a Roma dove il Verri si innamora della marchesa Margherita Gentili. Inebriato d'amore, decide di non allontanarsi dalla marchesa, compiendo un cambiamento esistenziale dall'impegno civile al conseguimento della felicita individuale. Per giustificare la propria scelta, egli contrappone con insistenza la sublimita dei sentimenti ai suggerimenti razionali di Pietro. La disputa finisce con la vittoria di Alessandro, ma questa non puo che essere effimera e preparatoria al disinganno fatale. L'infedelta della donna amata lo obbliga a ripensare totalmente il proprio giudizio di valore basato sui sentimenti e ad accettarne la falsita. Da un'attenta osservazione delle peripezie verriane intorno al valore dei sentimenti, sembra fondato ritenere che una serie di amare esperienze abbia influenzato fortemente la sua poetica, che trovera poi forma definitiva nei romanzi e nei drammi. Questo processo rappresenta un momento interessante nella genesi di una nuova sensibilita letteraria, emersa dal conflitto fra gli ideali illuministici e l'affermazione dell'io. Per chi scrive, l'originalita dell'approccio verriano non dovrebbe essere semplicisticamente sottovalutata come una manifestazione preromantica, ma approfondita alla luce del contesto culturale del suo tempo.
著者
秋山 余思
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.4, pp.92-95, 1955-12-30

A.Manzoni insistette sull'unita della ligua italiana nei vari saggi e lettere ai suoi amici. L'Italia aveva vari dialetti causa la divisione politica e non aveva una lingua comune a tutti. I letterati scrivevano in lingua classica. Egli volle che la parlata fiorentina fosse la lingua nazionale, e insistette sulla necessita di compilare un dizionario fiorentino per diffonderla. Nei Promessi Sposi aveva messo in pratica la sua teoria, percio la lingua della sua opera non poteva fare a meno d'essere meccanica.
著者
星野 倫
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.67, pp.1-23, 2017 (Released:2018-11-28)
参考文献数
50

Il ragionamento filosofico aperto da Dante nel primo libro della Monarchia con il concetto dell’intellectus possibilis, realizzabile solo nella moltitudine del genere umano («Et quia potentia ista per unum hominem seu per aliquam particularium comunitatum superius distinctarum tota simul in actum reduci non potest, necesse est multitudinem esse in humano genere, per quam quidem tota potentia hec actuetur»: I, iii, 8) viene condotto sulla scorta delle tesi di Averroè, come l’Autore stesso dichiara («Et huic sententie concordat Averrois in comento super hiis que De anima»: 9).In questo contesto, lo scopo del presente studio è rispondere ad alcune questioni relative alla ricezione della filosofia averroistica da parte dell’Alighieri: in particolare si intende chiarire quale testo fosse presente a Dante, se egli accettasse o meno la concezione del cordovese sull’unità dell’intelletto umano, se tale atteggiamento si differenzi nelle occorrenze del sintagma rilevabili nel Convivio e nel Purgatorio e, in conclusione, se e in che modo esista la possibilità di ordinare cronologicamente i riferimenti danteschi all’intelletto possibile.A questo scopo, in primo luogo è opportuno osservare come, in realtà, nel commento di Averroè al De anima aristotelico non si legga un’elaborazione del tema perfettamente sovrapponibile a quella dantesca. Il passo più vicino all’enunciazione della Monarchia pare invece trovarsi, come già sostenuto da Jean-Baptiste Brenet (2006), in un testo di Giovanni di Jandun, Super libros Aristotelis De Anima quaestiones (III, q. 10, col. 283), in cui il maestro parigino, che pure accoglieva la teoria dell’unicità numerica dell’intelletto, rimarcava al tempo stesso il contributo di tutti gli individui alla realizzazione dell’unico intelletto possibile. Concezione, questa, che veniva impartita nell’insegnamento di Giovanni nella facoltà delle Arti dell’università di Parigi a partire dal 1310, e in seguito (nella seconda metà del decennio successivo) trasferita nelle sue opere filosofiche, e che potrebbe essere pervenuta a Dante attraverso il ricordo o gli appunti degli allievi parigini del magister o la lettura delle Quaestiones, pubblicate fra il 1317 e il 1319.È dunque possibile sostenere che Dante accettava la teoria dell’unità dell’intelletto umano? Riteniamo di poter rispondere affermativamente a questo quesito, almeno nell’accezione illustrata da Giovanni di Jandun, che si distanzia tuttavia da quella originaria di Averroè. Il maestro sosteneva infatti che l’intelletto fosse unico, ma che tutti gli individui partecipassero alla sua realizzazione, proprio come si afferma nella Monarchia. Dante accoglieva l’idea dell’unità dell’intelletto umano poiché essa rafforzava per analogia la sua dottrina politica e giustificava su base filosofica la figura di un unico imperatore garante della pace e dell’ordine.L’esame di alcuni passi che trattano la genesi dell’anima in Dante potrebbe contribuire ad avvalorare questa ipotesi. Nel Convivio (IV, xxi, 4-7) e nel Purgatorio (XXV, 37-75), infatti, Dante accenna all’intelletto possibile, dato all’anima umana direttamente da Dio e assolutamente individuale: concetto palesemente non-averroistico. In Paradiso VII, 130-144, però, riprendendo il tema della genesi dell’anima, l’Autore sostituisce la definizione intelletto possibile – precedentemente riferito all’intelletto individuale – con il più piano vita. Questo potrebbe far trasparire la scelta dantesca di assegnare al sintagma un più preciso significato: quello, presente nella Monarchia, dell’unico intelletto della specie umana.Gli elementi fin qui menzionati inducono ad elaborare un’ipotesi che renda conto della successione cronologica della stesura dei quattro brani danteschi menzionati (Conv. IV, xxi; Pg. XXV; Pd. VII; Mon. I, iii). Si ritiene(View PDF for the rest of the abstract.)
著者
脇 功
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.52, pp.1-20, 2002-10-25 (Released:2017-04-05)

Nel saggio intitolato Piccola antologia di ottave compreso in Perche leggere i classici, Calvino, trattando l'Orlando furioso di Ariosto, scrive come segue:<<…ma indicare dove e come e quanto la mia predilezione per questo poema (l'Orlando furioso)ha lasciato traccia nelle cose che ho scritto, m'obbliga a tornare sul lavoro gia fatto, mentre lo spirito ariostesco per me ha sempre voluto dire spinta in avanti, non voltarmi indietro.E poi, penso che tali tracce di predilezione siano abbastanza vistose per lasciare che il lettore le trovi da se・・・>>In questo mio saggio, provo a rispondere al compito che ha lasciato Calvino a noi lettori, cioe trovare le trcce dell'Orlando furioso nelle opere di Calvino.Questo mino saggio si divide in tre parti : 1.La struttura dell'Orlando furioso.2.Le tracce dell'Orlando nel Cavaliere inesistente di Calvino.3.Il metodo di Calvino e le tracce di Ariosto.nella prima parte, esaminando l'Orlando furioso, ravviso alla base di questo poema la cognizione ariostesca che il mondo e composto da vari elementi, cioe la cognizione della varieta e della diversita del mondo.Esostengo che per rappresentare il mondo cosi concepito, Ariosto aveva bisogno di esprimere i vari personaggi, le varie azioni dei vari personaggi, i vari episodi, i vari frammenti del mondo, come Ariosto stesso dice,<<Di molte fila esser bisogno parme a condur la gran tela ch'io lavoro>>.Nella seconda parte, scegliendo il Cavaliere inesistente di Calvino come esempio in cui appaiono abbastanza vistose le tracce di Ariosto, indico che i protagonisti di questa opera calviniana, Agilufo e Gurdulu, non sono imitazione di Don Chisciotte e Sancio Pansa di Cervantes, ma che in Agilufo, Calvino, esagerando e mettendolo in caricatura, esprime Orlando prima di impazzire, e in Gurdulu Orlando impazzito.Nella terza parte, additto l'affinita delle cognizioni del mondo di Ariosto e di Calvino, ed esaminando quale metodo usa Calvino nelle sue opere, Le citta invisibili, Il castello dei destini incrociati e Se una notte d'inverno un viaggiatore ecc, per rappresentare la sua cognizione del mondo, e ci trovo il suo metodo che, allacciando e combinando i vari frammenti del mondo, costruisce un mondo, un'unita di finzione artistica simile a quello ariostesco, quindi concludo che anche sul piano metodologico, Ariosto ha lasciato un'impronta su Calvino, e per Calvino questa impronta metodologica era piu importante di quella superficiale e vistosa.
著者
天野 恵
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.41, pp.63-83, 1991-10-20 (Released:2017-04-05)

Nelle battaglie campali al tempo dell'Ariosto, mentre-come osservava anche Machiavelli-l'artiglieria pesante aveva un ruolo secondario, gli archibugieri spagnoli cominciavano a costituire una minaccia seria, non solo per la cavalleria pesante francese, ma anche per i quadrati di picchieri svizzeri, fino allora considerati invincibili. Questo fatto era di perticolare interesse anche perche, con la sconfitta dei francesi a Pavia (1525), avvenuta 4 mesi prima del ritorno dell'Ariosto dalla Garfagnana, la diplomazia ferrarese era entrata in un periodo difficile, caratterizzato da una instabilita internazionale, che si concluse nel tragico Sacco di Roma (1527) e nelle successive guerre della Lega di Cognac. L' analisi attenta delle tracce di correzioni apportate dall'Ariosto sul Fascicolo I dei Frammenti Autografi (Canto IX) ci induce a credere che il poeta, nell' inventare la storia dell'archibugio di Cimosco, si sia ispirato all'uso di questa arma da parte degli spagnoli in una serie di battaglie contro i francesi, alleati tradizionali degli Estensi. Questa osservazione spiega bene anche la metafora della polvere da sparo usata per descrivere il comportamento di Orlando che abbatte Cimosco (IX, 78). Inoltre il processo di perfezionamento del IX Canto e il successivo ritorno sull' argomento-con la famosa invettiva contro le armi da fuoco dell'XI Canto-lasciano trasparire le tortuose vicende della diplomazia ferrarese fino all'abbandono definitivo della linea filo-francese, con la Pace di Cambrai (1529) e l'incoronazione imperiale di Carlo V (1530) Nella "invettiva" (erroneamente considerata da alcuni studiosi una coraggiosa critica del poeta al proprio signore, che si vantava della sua potente artigliereia) si puo, quindi, rilevare un forte momento creativo dell'Ariosto, insieme all'interesse per gli avvenimenti storici del suo tempo.
著者
信森 廣光
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.28, pp.48-65, 1980-03-10 (Released:2017-04-05)

Vale la pena di considerare il significato e la struttura dell' Orlando furioso, in quanto l'Ariosto e riuscito a realizzarvi una costruzione stratificata a sistema gerarchico, adoperando la tecnica di sovrapposizione con alienazione per mezzo del metodo catalizzatore al fine di mescolare fra loro tanti episodi al livello profondo e di trasformarli in paradigmi delle formanti superficiali. Fra i personaggi che appaiono nel Furioso, il modulo paradigmatico di Orlando e Ruggiero-Bradamante e rappresentativo degli aspetti sintagmatici, ma l'Ariosto assegna a Rinaldo un ruolo altrettanto importante nel campo della dispersione. Egli tenta di confondere lo spettro metaforico utilizzando Orlando e Rinaldo alternativamente in una struttura eterogenea con sineddoche o metonimia; cerca inoltre di costruire una peripezia di storie fluente fra gli altri molteplici episodi, ricorrendo all'eco lontana di chronos e cairos. E chiaro che se compariamo strutturalmente la trattazione di quei racconti nelle tre edizioni pubblicate, cioe la prima e seconda edizione in 40 canti e la terza in 46 canti posteriore di 16 anni, vi troviamo numerose differenze in ethos e pathos nel modo di condurre la narrazione. E anche vero che quando esaminiamo la rappresentazione del Furioso nella sua struttura di superficie, ci rendiamo conto che questa meravigliosa varieta di episodi dovette rendere lo stesso Autore consapevole della difficolta di ridurli ad unita integrandoli mediante reciproca esclusione in una struttura che comprendesse il tutto. Pure, mi sembra che l'Ariosto si divertisse nel sistemare gli argomenti nel contesto di opposizioni binarie : possiamo percio affermare che proprio a questo disegno e dovuto il suo successo. All'Ariosto premeva che i lettori del Furioso si divertissero nel leggerlo, ed egli sapeva che cio che scriveva faceva parte di una tematica che coincideva con i loro interessi. E proprio a causa di guesto suo atteggiamento che il Furioso e risultato una delle opere d'arte piu riuscite. Per quanto riguarda l'intreccio dell'Orlando, lo strato superficiale e allargato ad altri eventi per rientrare infine nel proprio ambito profondo. Nel paradigma Ruggiero-Bradamante vi e una costruzione particolare con mutua aspettativa che mostra la ironia drammatica trasformata dalla emotivita. Le azioni di Rinaldo nell'intera struttura, descritte dall'abile tecnica dell'Ariosto al livello dello strato principale, ci richiamano i tratti tipici dell'epica cavalleresca. Tale e lo schema reale con antitesi e sintesi della sua struttura poetica. Mi limito a queste osservazioni perche un ulteriore confronto fra le strutture poetiche del Furioso e quelle dei Cinque canti rimasti inediti e allo stato di abbozzo risulterebbe eccessivamente lungo. Tale confronto sarebbe pero importante perche esso potrebbe fornire la prova che l'Ariosto intendeva apportare ulteriori modifiche alla sua opera. Si puo inoltre supporre che egli intendesse pubblicare la quarta edizione incostruzione sintagmatica.
著者
堂浦 律子
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
vol.46, pp.96-120, 1996-10-20 (Released:2017-04-05)

Gaspara Stampa, oggi considerata una delle migliori poetesse rinascimentali, visse a Venezia verso la meta del Cinquecento. Nacque a Padova nel 1523 da una famiglia agiata di commercianti e, per volonta del padre, ebbe una buona educazione letteraria e musicale. Alla morte del padre, la madre si trasferi con i figli a Venezia. L'ambiente vistoso e raffinato di Venezia, che in quel periodo godeva della piena fioritura culturale, ebbe sicuramente un grande impatto sulla giovane poetessa. Sappiamo che in casa Stampa si teneva un "ridotto", ossia una riunione dove si incontravano letterati, musicisti e nobili. Gaspara ebbe una grande reputazione come cantante e poi poetessa. Intanto nel 1548, le accadde di conoscere il conte Collaltino di Collalto, per il quale la poetessa espresse un amore passionale nella sua unica opera : Rime. Il rapporto tra i due duro per quasi tre anni, attraversando diverse fasi, a volte deliziose e a volte dolorose per lei. Mentre s'avvicinava la fine della relazione, le sue condizioni di salute cominciarono a peggiorare. La fine dell'amore la colpi gravemente. Non pote aiutarla a rimettersi in salute nemmeno il secondo amante Bartolomeo Zen, per cui la donna provo un amore piu moderato e tenero. Gaspara mori nel 1554 a 31 anni. Non abbiamo molte notizie che ci permettano di sapere di piu sulla sua vita. Nella storia dela critica letteraria, questa mancanza di documenti rendeva difficile l'avvicinarsi a una sua figura reale, ma nello stesso tempo, lasciava spazio per fantasticare sulla sua immagine. Nel periodo del romanticismo, Gaspara venne trattata come una povera fanciulla tradita, oppure un'amante romantica. Invece nel 1913, Abdelkader Salza, curatore di un'edizione delle Rime della Stampa, presento in un saggio una figura scandalosa della poetessa : cortigiana, ossia meretrice. La sua opinione suscito una serie di polemiche intorno al "mestiere" della poetessa. Soltanto dopo una trentina d'anni i critici e studiosi cominciarono a stimare il valore letterario delle opere della Stampa. Tra loro ci sono Benedetto Croce e Walter Binni ; il primo defini la poesia stampiana come "diario d'amore" e il secondo, invece, la considero una manifestazione legittima del petrarchismo. Si nota, infatti, in esse una grande influenza del petrarchismo, relativa sia al tema amoroso che allo stile. Gli incipit di alcuni componimenti della Stampa, come qui cito, sono molto affini o perfino identici a quelli del Canzoniere di Petrarca : -Voi, ch'ascoltate in queste meste rime, […], (Stampa) ; -Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono, […], (Petrarca); -Pommi ove il mar irato geme e frange, […], (S) ; -Pommi ove il sole irato occide i fiori e l'erba, […], (P) ; -Piangete donne e con voi pianga Amore, […], (S), (P). Il nome dell'amante Collaltino viene spesso paragonato al "Colle di Parnaso", un simbolo della poesia, come il "lauro" che viene ispirato dal nome della donna petrarchesca. L'Amore descritto dalla Stampa ha diversi aspetti : cosi aggressivo che la fa soffrire, o le ispira la poesia o esalta l'anima della poetessa al Cielo. Varie figure dell'Amore come queste si trovano anche nel Petrarca e, inoltre, nelle opere di Pietro Bembo. Quest'ultimo, analizzando le caratteristiche dell'Amore, stabili una teoria : il neoplatonismo. Secondo Bembo un vero amore significa soltanto un amore che possa purificare l'anima umana e condurre gli uomini verso Dio. Nello stesso tempo, l'umanista veneziano, defini il Canzoniere di Petrarca come un canne della lirica, applicando la sua teoria neoplatonica. Il petrarchismo stabilito da Bembo ottenne un'assoluta prevalenza nella letteratura italiana cinquecentesca. La nostra poetessa, che visse appunto in quell'epoca a Venezia, naturalmente subi l'influenza delle idee bembiane.(View PDF for the rest of the abstract.)
著者
児嶋 由枝
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.50, pp.76-89, 2000-10-20

In documenti frammentari del XIV secolo troviamo alcuni riferimenti assai significativi ai fratres laborerii ecclesiae Sancti Donini, ossia ai frati della fabbrica del Duomo di Fidenza. Da queste testimonimance, si puo supporre che il Laborerio del Duomo Fidenza sia stato un organismo autonomo che si finanziava partecipando ai lavori delle fabbriche pubbliche e accettando offerte e donaziono. Pare inoltre che questi frati coabitassero nel domus laborerii. D interessante notare che non e mai utilizzato l'appellativo di fratres per le maestranze degli altri Laborerii del Borgo (ad esempio quello del monastero di S. Giovanni o della fortificazione delle mura, ecc.). Si potrebbe ipotizzare che i membri del Laborerio fidentino conducessero una vita comune e che i loro beni e la loro opera fossero sotto controllo collegiale. Fra le organizzazioni analoghe della medesima epoca ci sarebbero gli ospedali in servizio ai pellegrinin e agli infermi, indipendenti da capitolo, al quale originalmente questi enti erano connessi. Questi ospedalieri autonomi erano assimiliati a canonici regolari, raggruppati in forme di confraternite e si chiamavano fratres e sorores. Osservando questo fenomeno, non sarebbe impossibile che anche i fratres laborerii fossero stati analoghi in qualche maniera a canonoci regolari. Altri esempi simili possono essere i conversi dell'ambito monastico denominati pure frati, in particolare quello cistercense. Una parte dei conversi cistercensi erano esperti nei lavori della costruzione, probabilmente come i frati del Laborerio fidentino. E importante presumere che anche i frati del Laborerio fidentino siano stati specializzati in edilizia, in quanto da questa supposizione si potrebbe dedurre che per realizzare la parte architettonica del Duomo di Fidenza non fosse stato indispensabile l'intervento di Antelami, creduto da alcuni studiosi l'architetto dell'intera fabbrica. Le suddette osservazioni sono significative anche per riflettere sulle circostanze in cui gli elementi architettonici del gotico maturo francese penetrarono nel cantiere fidentino, molto probabilmente tramite i cistercensi.
著者
岩倉 具忠
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.40, pp.1-16, 1990-10-20

Mi sono interessato particolarmente alla parte del canto XV del "Paradiso" che costituisce il preambolo al famoso incontro con Cacciaguida, in cui il trisavolo del poeta rivolge a Dio parole incomprensibili ai mortali. Si tratta di un linguaggio mistico che il poeta non ha modo di intendere. Gli angeli e i beati non hanno bisogno di nessun mezzo di comunicazione, perche la loro intelligenza non viene coperta "cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus". Essi mirano "nello speglio in che, prima che pensi, il pensier pandi". Non era necessario quindi per un beato come Cacciaguida parlare a Dio che "tutto discerne". Ci deve esere un altro motivo per cui egli parla. A mio parere nelle parole che Cacciguida rivolge a Dio vi e un elemento mistico e liturgico. Nel "De vulgari eloquentia" Dante spiega l'origine della lingua umana, basandosi sulla narrazione del "Ggenesi", ma aggiunge delle considerazioni personali che non si trovano nel testo originale. Il poeta pensa che Adamo abbia cominciato a farsi sentire prima che a sentire, perche nell'uomo il farsi sentire e piu essenziale che il sentire. Adamo, unico uomo esistente, avrebbe rivolto la sua prima parola a Dio per farsi intendere. Ma Dio discerne tutti i segreti della mente del primo uomo, e non c'era necessita che Adamo parlasse. Dio tuttavia volle che anch' egli parlasse, affinche fosse gloirficata la Sua opera. Io penso che Cacciaguida rivolga le sue parole a Dio per una ragione analoga : glorificare l'opera del Signore, ringraziandolo per l'eccezionale generosita con cui ha concesso al suo discendente l'alta missione di "scriba Dei". Di fatto il linguaggio mistico di Cacciaguida si configura come uno sfogo religioso simile a una preghiera. Una situazione non molto diversa si puo osservare nel dialogo tra Dante e Cacciaguida. Dal momento che quest' ultimo prevede tutto quanto il poeta concepisce nella mente senza che venga espressa con il linguaggio, non sarebbe stato necessario che Dante si esprimesse. Cio nonostante il trisavolo gli chiede di parlare con voce "sicura, balda e lieta". Anche qui si tratta di un atto prettamente rituale. Che significato ha dunque in Dante il ricorso a tale azione rituale? Senza dubbio il poeta voleva conferire autorita alla missione decretata dall' Eterna Volonta senza tuttavia esplicitarne il vero significato. In conclusione il linguaggio mistico nel episodio considerato e un artificio retorico utilizzato abilmente dal poeta per rendere ancora piu solenne l'incontro memorabile con il suo trisavolo.
著者
杉山 博昭
出版者
イタリア学会
雑誌
イタリア学会誌 (ISSN:03872947)
巻号頁・発行日
no.61, pp.93-122, 2011-10-15

Nel presente lavoro si andranno ad identificare e analizzare i copioni delle sacre rappresentazioni raccolte a Firenze nel Quattrocento. Secondo la tesi generalmente accolta, il pregio principale di questi drammi rinascimentali sarebbe l'effetto scenico spettacolare. Questa tematica e stata lungamente discussa dagli storici dei drammi e delle arti come D'Ancona, Molinari, Damisch e Baxandall. Per quanto si debba riconoscere alle argomentazioni addotte dagli storici l'appropriatezza alla realta dell'epoca, riteniamo che siano tuttavia viziate dalla tendenza a tenere scarsamente conto dei copioni dei drammi stessi. Scopo di questo studio e esplorare le motivazioni dello stato attuale della ricerca. Il primo obiettivo che si intende raggiungere e l'identificazione dei testi che effettivamente furono messi in scena a Firenze nel Quattrocento attraverso i manoscritti redatti in quell'epoca e/o gli incunabuli, cioe gli stampati antichi. Il secondo obiettivo e l'analisi dei testi allo scopo di definire i fondamenti documentari dei presupposti alla base delle ricerche condotte fino ad oggi sulle sacre rappresentazioni. Newbigin ha indicato un'importante differenza fra le letture e i copioni delle sacre rappresentazioni. La studiosa ha formulato l'ipotesi secondo la quale la maggior parte degli stampati religiosi intitolati rapresentazione non venissero rappresentati nelle chiese o nelle piazze, ma fossero invece utilizzati come letture religiose private, sottolineando quindi la necessita di estrarre i copioni autentici nella ricerca concernente le rappresentazioni festive. Condividendo questo punto di vista, accettiamo qui il metodo filologico che considera con attenzione le condizioni esteriori dei testi manoscritti, quello stesso metodo che Newbigin ha avanzato nella sua tesi. Oltre a cio, al fine di identificare i testi con la maggiore precisione possibile, intendiamo rivolgere particolare attenzione alle condizioni interne dei testi stessi, cioe alle battute angeliche, che inducono ad ipotizzare l'esistenza di molti spettatori (cioe di un pubblico formato da cittadini e viaggiatori), nonche alle didascalie, che indicano l'attrezzatura caratteristica della regia delle sacre rappresentazioni. Intendiamo infine tentare un confronto fra la compilazione dei testi manoscritti, raccolta secondo i suddetti procedimenti, e le registrazioni delle rappresentazioni nelle cronache o nei documenti antichi. I risultati di questa collazione dimostrano che qualche repertorio, per esempio quello della Passione e Risurrezione, non esisteva nel gruppo dei testi: a questa mancanza si supplisce attraverso gli incunabuli. Come risultato delle varie fasi in cui il lavoro volto all'identificazione dei testi e stato articolato, riteniamo di aver potuto selezionare in modo affidabile i copioni delle sacre rappresentazioni, dei quali si allega si allega la lista alla fine del lavoro. In base all'identificazione cosi compiuta, si procede all'analisi dei copioni allo scopo di chiarire le caratteristiche, o le funzioni in senso stretto, delle sacre rappresentazioni messe effettivamente in scena. La lettura dei testi ne evidenzia tre: la funzione religiosa, quella didattica e quella spettacolare. Nel considerare la funzione religiosa, troviamo stanze dure e spietate in scene come quella della Passione e dei programmi dei martiri: le esecuzioni capitali, infatti, avrebbero dovuto esortare gli spettatori a pentirsi sinceramente volgendo il pensiero alle pene corporali. Dal punto di vista della funzione didattica, sono particolarmente importanti le scene dei dialoghi fra i nobili e i loro accompagnatori, come il Re e il Cavaliere, il Console e l'Esecutore, il Santo e il Messaggero. La caratteristica delle stanze coincide con le opinioni di storici come Polizzotto e Ventrone, i quali sostengono che le sacre rappresentazioni avrebbero dovuto servire ai giovani fiorentini ad adeguarsi ad abitudini commerciali come le buone maniere, l'oratoria e la correttezza del gesto. Per quanto riguarda la funzione spettacolare, si considerano le scene che rappresentano miracoli di guarigione di malati o di resurrezione dei morti, perche prima dei miracoli di Gesu o del Santo si trovano sempre dialoghi ingiuriosi relativi alla sporcizia degli uni o all'impurita degli altri. Si vede cosi come le scene mostrino che i registi si servivano della dicotomia di bello e brutto, bene e male, sacro e profano. Le argomentazioni illustrate valgono come riprova del fatto che i caratteri delle sacre rappresentazioni evidenziati dai diversi storici sono corroborati dai copioni del repertorio. Questo studio contribuisce alla comprensione relativa all'accettazione delle rappresentazioni da parte degli spettatori del Quattrocento a Firenze.